Eternamente Kobe
Gli 81 punti contro i Toronto Raptors, la prestazione più onnipotente che si sia mai vista su un campo di basket negli ultimi 58 anni, e che tale rimarrà per tanto altro tempo ancora.
"Dear Basketball", le righe toccanti con cui annunciava l'addio alla pallacanestro. Ma anche sinonimo di una nuova vita, perché quelle parole sono anche il titolo del suo cortometraggio, vincitore agli Oscar 2018.
"Kobe solo sull'isola", perché in realtà ogni singola gara che abbia mai giocato era prima di tutto per battere se stesso. Un'impresa tutt'altro che facile.
E poi i titoli, quanti titoli. I cinque trionfi in NBA, le due medaglie d'oro alle Olimpiadi, il Mondiale. L'MVP del 2008, quello doppio alle Finals 2009 e 2010. Più un elenco infinito di record, che comunque non restituiscono la dimensione del giocatore ma soprattutto dell'uomo.
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Si fermano il 26 gennaio 2020 le pagine di storia che potrà scrivere Kobe Bryant, patrimonio del mondo dello sport. Superflua come più non potrebbe essere, quella retorica di chi "non muore mai veramente". Ed è così, l'agonismo ossessivo che ha caratterizzato tutta la carriera di Kobe ha un nome riconoscibile e riconosciuto, la Mamba Mentality. Non è soltanto qualcosa che riguarda il parquet. Nessuno meglio di lui ha sublimato il desiderio morboso di primeggiare, in qualsiasi aspetto della vita.
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"Greatness recognizes greatness" amano dire negli Stati Uniti. Una virtù che appartiene a pochi, quando si tratta di celebrare fenomeni della stesso spessore. E che a Kobe non è mai mancata. Sono passate poche ore da quando con un tweet si congratulava con LeBron James, che lo superava nella classifica dei marcatori ogni epoca dell'NBA al terzo posto.
Nella sfida di Bryant, tra i Los Angeles Lakers che sono stati la sua vita sportiva e i Philadelphia 76ers, squadra della sua città. Con James che indossava delle scarpe proprio a lui dedicate, consapevole che avrebbe messo a referto i 17 punti che gli servivano per l'aggancio. "Continua a far avanzare il gioco" è l'augurio che gli aveva fatto, un passaggio di consegne destinato a rimanere eterno.
Il passaggio da infanzia ad adolescenza l'ha vissuto in Italia, per seguire il papà Joe, anche lui giocatore di pallacanestro, nella nostra Serie A. Il piccolo Kobe ha conosciuto così il calcio, ne ha capito il trasporto viscerale, ne ha studiato ogni minimo aspetto alla ricerca dei punti d'incontro tra le due discipline. Nemmeno da ragazzino concepiva di lasciare qualcosa al caso. L'Italia gli è entrata nel cuore, destinata a non uscirne mai.
Per le sue quattro figlie, di cui una deceduta con lui nella tragedia, ha scelto i nomi Gianna (scomparsa nell'incidente), Bianka Bella, Natalia Diamante, Capri. Adorava gli scorci incantevoli della Costiera Amalfitana, dov'è stato la scorsa estate. Mai nascosto il suo tifo per il Milan: s'innamorò di quegli olandesi che ne hanno accresciuto la gloria. Grazie all'amico e al compagno di mille successi Pau Gasol si è appassionato anche al Barcellona, e con lui ha festeggiato il trionfo blaugrana nella Champions League del 2009 poche ore prima di una gara di finali di conference contro i Denver Nuggets.
Nessuno è pronto per qualcosa del genere, mai. L'impressione che avrebbe dato tanto al basket e non solo, in qualsiasi veste, non era solo una semplice impressione. Kobe difficilmente ha deluso le aspettative. Si dice spesso che la vita sia un cerchio. Ma per lui si addice di più il triangolo. Come quello schema che ha cambiato la sua storia e quella della pallacanestro. Come il suo marchio, quello del Black Mamba. E che ora ha trovato, forse, il suo vertice più alto. Destinato ai più grandi di sempre. Il cielo.