Spalletti, scudetto in autostop: finalmente il destino è forte

Tutti vogliono viaggiare in prima. Tutti, persino Luciano Spalletti. Che un po’, però, il suo viaggio se l’è goduto anche senza vista finestrino ogni tanto. È partito da lontano, lontano è arrivato. A Frattamaggiore - comune del napoletano, lo stesso in cui era nato e cresciuto l’ex capitano Insigne - uno striscione campeggia: “Uomini forti, destini forti”.

Una frase che ha portato l’allenatore toscano nel mondo, da Certaldo fino in Russia, da Udine a Empoli, da Roma a Milano. E poi a Napoli. Era arrivato due estati fa e sembrava non piacere a nessuno: alcuni tifosi avrebbero preferito a lui addirittura Allegri, sì simbolo juventino ma anche allenatore dal successo quasi assicurato, uno che lo scudetto lo aveva già conosciuto. Spalletti, invece, è l’uomo della zona giusta, ma mai quello della vittoria. Bisogna arrivare sul podio? Non c’è problema. Ma sul gradino più alto il toscano non ci era mai arrivato. Fino a ora.

Napoli, lo scudetto di Spalletti

L’unico campionato vinto era quello in Russia, sulla panchina dello Zenit. Due volte tra il 2010 e il 2012. Ma in Italia il segno lo aveva lasciato comunque. Due Coppe Italia con la Roma, una Supercoppa italiana con i giallorossi nel 2007. Due volte Oscar del Calcio e una vittoria anche della Panchina d’Oro. Spalletti per tutti è un maestro anche se la bacheca non è proprio piena. L’Udinese dei miracoli in Champions League è la sua, sua è la Roma delle meraviglie che scopre in Totti un fantastico centravanti. Con i giallorossi ha anche il record di punti in Serie A di sempre, siglato quando il numero 10 era ormai a fine carriera. Forse il suo rimpianto più grande, forse la spina più pungente della sua rosa. Vivere l’addio di Totti a Roma vuol dire avere un cattivo della storia: Spalletti era il cattivo perfetto per tutti. Ha vestito quei panni, ha preso su di sé tutte le colpe, ma soprattutto ha portato la Roma dove gli avevano chiesto di portarla. Con Totti o senza. A Milano aveva fatto lo stesso. Anche lì non c’era posto finestrino - quello sarebbe arrivato a Conte più tardi - ma la qualificazione nell’Europa che conta arriva? Sì. E allora zitti tutti. Parla Luciano.

Che quando può sa anche farsi ricordare. La prima Roma era uno spettacolo, il Napoli lo è allo stesso modo. Calciatori da plasmare e lui sa come fare. Aveva scelto la Russia per lasciare casa, un’esperienza che l’ha cambiato in tutti i sensi. Quello di Napoli non è lo Spalletti visto prima in Italia. Si muove con una Fiat Panda nera per la città. Cerca di non farsi riconoscere. Vive le strade, i vicoli. Blitz notturni in qualche pizzeria, a San Gregorio Armeno per gustarsi i presepi, sul lungomare per un occhio alla bellezza. “Napoli ne ha troppa, a vederla ti si fanno azzurri gli occhi” ripete alla sua squadra avvertendo dei pericoli. Ora, però, si è preso anche una rivincita: su quelle scarpe da calcio che da ragazzino non poteva permettersi, sugli allenatori che non fanno gavetta, sulla sua carriera da calciatore che non è andata oltre la C, su quelli che “Ma lui non vince mai” e su quanti due estati fa non l’avrebbero voluto. A Napoli non ha vinto solo uno scudetto. Ha restituito alla città la voglia di sorridere per il pallone. È la vittoria più grande: non finirà in bacheca, ma nel cuore. La Serie A, invece, prenderà spazio. Finalmente, Luciano. Avrebbe anche potuto viaggiare in prima, ma senza l’autostop quanta bellezza ci saremmo persi.

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