Addio a Sergio Vatta: l'uomo che capì le giovanili prima di tutti
La Dalmazia è quella terra di mezzo dove per crescere bisogna aver la forza di cambiare. C’è una lingua, c’era anzi, il dalmatico, che con pochi concetti diceva tutto. Lui invece parlava. Parlava tanto. Si capiva da quando era piccolo che Sergio avrebbe fatto strada, perché era diverso in tutto. Sergio è Vatta, che nella notte tra il 22 e il 23 luglio 2020 ha deciso di salutarci tutti a 83 anni. Una cosa improvvisa e silenziosa. Diversa.
Strada ne ha fatta, sì. E non solo per metafora. Perché da Zara è arrivato fino a Torino: quasi 500 kilometri per arrivare in Piemonte e costruirsi un futuro, in una città che ha sempre vissuto il grande calcio. Quello di Valentino Mazzola negli anni Quaranta, del Torino dello Scudetto del ‘76, ma anche della Juventus dell’Avvocato. Juve avversaria di una vita, che Vatta ha sempre cercato di combattere con i mezzi propri: facendo crescere i talenti nel vivaio.
I ragazzi del Fila
Perché Sergio l’aveva capito subito: “Dobbiamo fare crescere i nostri giocatori”, diceva sin da quando nel 1977 era stato assunto dal Torino come allenatore delle squadre giovanili. Ci resterà per quasi vent’anni, fino al 1991. Fu l’era che i tifosi del Toro ricordano come quella dei “ragazzi del Fila”, quando il Filadelfia, che ora accoglie gli allenamenti della prima squadra e le gare della Primavera, sfornava talenti uno dietro l’altro.
Il segreto era parlare tanto. “Fare in modo che i ragazzi abbiano fiducia in loro stessi”, ripeteva. La lista dei giocatori che hanno visto la A è stata lunga: Mandorlini fu il primo, poi Lentini, Fuser, Cravero, Venturin, Comi, Dino Baggio. E Christian Vieri. Dopo il primo giorno di lavoro nel Toro, Bobo voleva lasciare tutto. “Sono il più scarso qui dentro”. “È vero. Però quando tiri prendi sempre la porta, perché?”. “Non lo so, mister”. “Te lo dico io: sei scarso, ma hai fiuto. Continua a tirare verso la porta, farai strada”. Gli cambiò la vita.
Grande con i piccoli
Con le Giovanili Torino ha vinto tantissimo. Scudetti, Coppe Italia, 4 Tornei di Viareggio. Tutti tra gli anni ‘80 e ‘90. Nel ‘89 è in prima squadra, per prendere il posto dell’esonerato Claudio Sala, ma non riuscirà a salvare il gruppo dalla retrocessione. “Torno tra i giovani”, disse a fine stagione, “il mio mondo”. Che ha conosciuto anche in veste di selezionatore per la FIGC fino al ‘97, diventando un precursore del calcio femminile, allenando per un anno la Nazionale che arrivò ai Mondiali. Poi, basta panchine e un ruolo da dirigente: lo chiamò Cragnotti alla Lazio, dove restò fino al 2001. Quindi un’esperienza al Pak Salonicco di due anni e il ritorno in Italia, all’Alessandria, prima di stabilirsi definitivamente a Torino. Dove ha trascorso gli ultimi 15 anni della sua vita.
Intervistarlo non era mai cosa breve: quando lo chiamavi, al telefono ti teneva almeno un’ora; in pubblico ti passava un pomeriggio. Ma raccontava qualsiasi cosa, sempre senza elogiarsi, però indugiando nei particolari. Non poteva stare zitto, no, non era nel suo DNA. Un altro suo segno distintivo? Il cappellino in testa. Lo portava quasi sempre. Un giorno, in pubblico, se lo tolse. Era stato chiamato a parlare su un palco, durante una delle iniziative per far rinascere il Filadelfia: sull’erba dello stadio in rovina, lui, con il cappello in mano, intimidito e quasi commosso, ha spiegato cosa volesse dire quella filosofia di calcio. Quella che ha portato i suoi ragazzi a fare carriera e il Torino ad avere un vivaio vanto di una Nazione intera. Aveva già capito tutto, Sergio. Il suo silenzio, ora, sarà difficile da colmare.
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