Rodrygo, un vincente nato per il club più vincente

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Rodrygo, tutto sommato, è un tipo normale. Faccia da bimbo, pulita, niente tatuaggi, né un fisico da superuomo. A giocare a calcio è molto bravo, ma non il più bravo: ha il dribbling, anche se non ha l'estro di Neymar; ha la finalizzazione, anche se non è prolifico come Ronaldo; è veloce, anche se non sprinta come Mbappé. È un classe 2001, diventerà un campione o qualcosa che gli si avvicina, ma non pare un leader generazionale. Forse non avrà una statua in qualche pezzo di mondo, come è di moda ormai fra i fuoriclasse, fra una trentina d'anni.

Però ha qualcosa, che è più di qualcosa. È una luce, che pare la stessa con cui i faretti del Bernabéu tranciano l'aria nelle notti più importanti. Rodrygo non è il più forte, ma è fatto per vincere, per essere decisivo, per non sbagliare quando gli altri tremano. Esattamente come la sua squadra, che quest'anno senza essere la migliore ha eliminato i migliori: Chelsea, Paris Saint-Germain, Manchester City.  

L'uomo Champions

Non è una sensazione, è una realtà: Rodrygo Goes è l'uomo da Champions del Real Madrid. Dopo Benzema, certo; dopo Modric, certo. Ma guardate i numeri: con i blancos in tutto ha segnato 17 gol, 10 di questi sono in Champions, in solo 26 partite. Che sono poche, pochissime per arrivare a questi risultati se hai 21 anni e giochi nello stadio più esigente del mondo. Abituato bene (eufemismo) perché alla prima presenza casalinga della sua vita nella competizione ha segnato una tripletta, contro il Galatasaray. Quando Zidane rischiava fortemente esonero e mancata qualificazione agli ottavi e lui è arrivato a tendergli una mano. La più inaspettata. 

Zidane, l'allievo, che al maestro, Carlo Ancelotti, ha cresciuto questo talentino perché anche a lui tendesse una mano nel momento del bisogno. Anche se, quando il talento è innato, i meriti piuttosto andrebbero a mamma e papà. Rodrygo, infatti, è uomo da grandi notti da quando vestiva la maglia del Santos, con la quale è diventato il calciatore più giovane a segnare un gol nella Libertadores (aveva 17 anni appena compiuti, oggi è stato superato da Gabriel, sempre del Santos ma sedicenne) dopo aver bruciato le tappe nelle giovanili per le quali era, semplicemente, troppo forte. 

Senza scomodare il passato remoto, quando per le strade e i campetti di futsal di Osasco, Brasile, lasciava per terra tutti i coetanei, sfoggiando gli insegnamenti di papà Erick, ex terzino destro senza gloria. Remoto, ma mica da dimenticare. Visto che il giovane Goes a 11 anni era già sotto contratto con la Nike (Neymar ebbe la sua prima sponsorizzazione ai 13). E da poco più che ragazzino si ritrovava a dribblare pure la corte del Liverpool, rifiutata per poi vestirsi di bianco nel 2019, con un cartellino pesante 45 milioni di euro attaccato alla maglia. Ma la pressione è per altri.

In linea con la tradizione, quest'anno Rodrygo, mai titolare ma sempre indispensabile, ha segnato solo gol pesanti in Europa. Quello della vittoria con l'Inter, della goleada allo Shakhtar; il primo del ritorno contro il Chelsea, che ha evitato la figuraccia ai quarti, e soprattutto la doppietta contro il Manchester City. Che rappresenta meglio di ogni altra cosa la mistica di cui sembra imbevuto il Real Madrid in questa assurda stagione. 90' e 91', quando tutto sembrava finito e pure la luce dei faretti si faceva flebile. Non c'era mai stata una doppietta quando mancava solo il recupero in una partita ad eliminazione diretta nella storia della competizione. Non sai come, non sai quando, ma questa squadra ce la fa sempre. Sai perché, se non altro: dal titolare al subentrato sono tutti coscienti del fatto che in questo club valga solo un risultato.

In fondo, "novanta minuti nel Bernabéu son molto longhi" e il modo in cui gioca anche un giovanissimo come Rodrygo ne spiega la ragione. Perché sembrerà pure un tipo relativamente normale quando messo a confronto con le altre stelle, e non sarà nemmeno un leader generazionale. Ma è tremendamente vincente. Esattamente come la sua squadra, che non è la migliore, ma allo stesso tempo lo è. Perché ha gente come lui, che per un dono che non si compra da nessuna parte brilla nei momenti in cui gli altri tremano.

"A por la 14" ("Andiamoci a prendere la quattordicesima"), c'è scritto nelle maglie che i giocatori in bianco si infilano a fine partita. Erano già pronte, ovviamente, perché si sapeva già come sarebbe andata a finire. Si va in finale, contro il Liverpool. La squadra dove lui non è andato, da ragazzino, abituato com'era a dribblare. Ha aspettato il club che meglio lo rappresentasse. Scelta azzeccata: Carletto e Zizou confermano.

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