Rodrigo Ely: “Al Milan era come vivere nella PlayStation, ma in Spagna sto bene”

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Prendete un ragazzino brasiliano di 15 anni e mettetelo ad allenarsi con Ronaldinho, Pirlo e Ibrahimovic, per dirne tre a caso. “Mamma mia, era come vivere nella PlayStation. Il giorno prima giocavo a casa mia e quello dopo ero lì con i miei idoli, alcuni dei migliori giocatori della storia”. Il sorriso di Rodrigo Ely quasi esce dalla mascherina quando pensa ai suoi “anni spettacolari” in rossonero, poco importa se al Milan abbia fatto solo quattro presenze.

Ely parla con gianlucadimarzio.com appena terminato il suo allenamento con l’Almería, squadra di B spagnola. Più che alto, è lungo; si siede su una poltroncina e sembra quasi che sia ancora in piedi. Rubiamo la sala del ping pong per qualche minuto. Dei compagni che speravano di potersi finalmente divertire dopo essersi spaccati la schiena ci guardano male. Hanno delle facce stremate; lui, invece, sembra appena uscito da una spa. 

Il ricordo di Raiola

Difensore centrale come papà, Ely viene scoperto dal Milan in un torneo giovanile in Brasile, ma chi davvero spinge per portarlo in Italia è Mino Raiola, recentemente scomparso. “È terribile, lo sto ancora assimilando”, dice a testa bassa. Ha creduto in me quando non ero nessuno, gli sarò eternamente grato. Aveva la sua personalità, è vero, ma per la gente con cui lavorava era come un padre, sempre lì per parlare, dare consigli. Dietro quello stile un po’ duro c’era una persona spettacolare, credimi”. 

Thiago Silva e gli allenamenti “in cinese”

Basta tornare a nominare il Milan perché gli occhi gli si spalanchino di nuovo. È comprensibile: pensate che lusso, per un centrale, allenarsi tutti i giorni con Nesta e Thiago Silva. Specialmente il secondo, suo idolo che appena arrivato disse di lui che sarebbe diventato “un ottimo difensore”.

Fra connazionali ci si intende, e fu così che Thiago lo prese sotto la sua ala protettiva. Alla sua maniera. “A quei tempi era il migliore in circolazione, ma era anche un tipo molto tranquillo e sapeva trasmetterti quella tranquillità. Vedeva che avevo le qualità, ma a volte ero nervoso, le cose non venivano fuori come volevo, e lui sapeva come portarmi alla calma. Per me, un bambino, fu importantissimo”.

I quattro anni in rossonero (due in primavera e due in prima squadra, con in mezzo i prestiti a Reggina, Varese e Avellino) però non furono un’infinta partita alla PlayStation. Lo shock culturale dei primi allenamenti Rodrigo se lo ricorda ancora bene: “È stato molto complicato. Penso alle prime volte in cui mi misero a fare lavoro tattico specifico… In Brasile questo non esisteva, era come se mi parlassero cinese!”. In una parola: panico. Ma oggi la prende a ridere, e riconosce quanto gli abbia lasciato il Paese dove si può fare tutto, ma non difendere male: “Per un difensore gli anni in Italia sono un bagaglio importantissimo, te lo porti dietro per tutta la carriera. È come un master in difesa”.

Le presenze, però, rimangono quattro, fra l’altro con la macchia dell’espulsione all’esordio in campionato, contro la Fiorentina e dopo soli 36 minuti. “Mi dispiace per com’è finita, speravo in un epilogo diverso”, riconosce. “Ma il Milan lo guardo ancora, sempre. E sono il primo tifoso per lo Scudetto. Hanno lavorato molto bene in questi anni, se lo meritano”.

Gli anni in Spagna, marcando Messi e Benzema

È stato proprio lo staccarsi dal cordone ombelicale milanista che gli ha permesso di conoscere il calcio spagnolo, quello dove ha reso meglio in carriera, dapprima all’Alavés. Non perché la Serie A non accompagnasse il suo stile, precisa, ma perché “qui sto proprio bene, e poi sono cresciuto nel tempo. Comunque ho fatto 100 presenze in B e nel calcio non dev’essere sempre tutto e subito”.

Nei Paesi Baschi fa cinque campionati, tutti in Liga, spesso da protagonista. Sono gli anni dei mostri sacri e lui li marca tutti, da Cristiano a Neymar. “Ma il più forte è Messi. Lo vedevi lì, sembrava che stesse sempre passeggiando, poi ti decideva tutte le partite. Unico”. E Benzema? “Eh!”. Ride. “Speciale, completissimo. Fa sembrare facile tutto quello che per gli altri è difficile. I controlli, la visione, il tiro. Sembra che non faccia mai uno sforzo. Per tutti gli altri sono cose impossibili, e lui le fa con una calma e una brillantezza di un altro mondo”.

Oggi il suo presente è l’Almería. Seconda Divisione, a pochissimi punti di distanza perché diventi prima. Ely è l’ultimo arrivato, approdato a marzo dopo una brutta esperienza da zero presenze al Nottingham Forest (“Io mi considero un ragazzo nobile, per così dire, e quando le cose non vanno bene sono il primo ad ammetterlo e ad andarmene”). Eppure è già un titolare e se l’Almería e ormai ad un passo dalla Liga è anche grazie ad un suo gol che, negli ultimi minuti, ha evitato la sconfitta contro il Valladolid, terzo in classifica.

“Qui ho trovato quello che volevo: giocare, il campo, la tranquillità. Poi i compagni mi hanno accolto alla grande, l’allenatore mi ha dato da subito fiducia e il suo modo di giocare, spregiudicato e tenendo sempre il pallone, mi esalta. Mi diverto e quando uno si diverte il rendimento arriva da solo”.

Rodrigo, passaporto italiano e dieci presenze nelle nostre nazionali giovanili, fa tutta l’intervista in spagnolo. “Ahora lo tengo más en la cabeza”, giustifica. Ma l’Italia gli è rimasta dentro, se non altro per il cibo. Ecco, se c’è una cosa di cui parla con più trasporto che del Milan, sono pasta e pizza.

“Ma sei un buon cuoco?”.

“Sì. Diciamo di sì. Insomma, niente di straordinario, ma mi difendo”.

“Allora dicci il tuo cavallo di battaglia”.

“La pasta mi viene molto bene”.

“Detto così è troppo generico, dai!”.

“Allora la pasta al pomodoro”. Pausa, si fa serio, inizia a gesticolare per la prima volta in venti minuti. “Vedi che una pasta al pomodoro sarà pure semplice, ma una pasta al pomodoro fatta bene è una goduria, eh”. Il passaporto non mente: è davvero italiano.

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