Ricchiuti: "Catania, Buenos Aires d'Italia. Calcio, ricordi, problemi. E la Juve..."

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Come si diceva? Argentini popolo di italiani? Eppure il calcio dice altro. In effetti, quando parli con Adrian Ricchiuti, capisci subito cosa voglia dire: ama l’Italia, è la sua nuova casa. Ma soprattutto parla un italiano impeccabile, pieno di proverbi, di espressioni comuni che solo un madrelingua può conoscere. L’intervista che concede a Gianlucadimarzio.com ha toni particolari, diversi. Comincia dal pianto di un bambino: “Scusa, sta facendo i capricci, mi sposto. Dimmi tutto”. Si parte.

Ha 41 anni, ma da quando ne ha 14 si è trasferito in Italia. Rimini e Catania sono due tra le tappe più importanti della sua vita. E in Romagna ha lasciato il cuore, oltre i gol probabilmente più memorabili. Uno? “Quello alla Juve. Fu il primo a segnare ai bianconeri in Serie B. Era l’esordio di Buffon e compagni. “L’anno prima ci eravamo salvati, si respirava un’atmosfera diversa. Con Acori avevamo fatto una scommessa: lui diceva che ci sarebbe tocca la Juventus alla prima partita, noi no. Abbiamo dato i soldi in beneficenza... Ma il mister era incredibile: quello che diceva si avverava sempre. Per noi affrontarli subito è stata una fortuna”. Già, per l’ambientamento, per le difficoltà, un campionato nuovo… “Assolutamente no. Perché tutti si potranno ricordare del Rimini. Ci pensi? È la prima domanda che mi hai fatto. Quella è stata una giornata incredibile: vedemmo arrivare la Juventus con un aereo privato, c’era tantissima gente ad aspettare la squadra. Il nostro presidente da quel momento decise che anche noi avremmo dovuto avere il nostro aereo: non voleva essere da meno”.

"In dieci in campo, non me ne sono accorto"

Va bene l’arrivo, ma in campo? A Paro (a proposito, che fine ha fatto?) rispose Ricchiuti: 1-1. Con il Rimini che giocò per mezz’ora con un uomo in meno (espulso Cristiano). “Posso dirlo? Ho scoperto che eravamo in dieci solo il giorno dopo. E se pensi che scherzi, ti sbagli. Ero come inebetito: per uno che ha sempre sognato di giocare a calcio, l’idea di affrontare dei campioni del Mondo superava ogni limite. E poi ho pure segnato. Mi ricordo ancora che la sera prima c’era la coda allo stadio, gente che ha passato la notte a dormire davanti alla biglietteria per riuscire a entrare il giorno dopo. Spero che un domani Rimini possa tornare a vivere tutto questo”.

"Da Rimini a Catania, colonia argentina"

Merito di? “Bellavista, il nostro presidente. Era un uomo coi fiocchi, d’altri tempi. Non esistono più presidenti così. Volevamo costruire qualcosa di importante insieme: per questo gli dissi di non informarmi sulle proposte di trasferimento. So che ne ha rifiutata qualcuna, ma non mi ha mai detto da chi. Il progetto era bellissimo, purtroppo si è interrotto di colpo, quando è venuto a mancare. Resterà per sempre nel mio cuore”.

Dopo sette anni, nel 2009, Adrian decise di cambiare: lo aspettava Catania. Proprio quel Catania costruito da Pulvirenti e Lo Monaco (di recente aggredito). Una colonia argentina. “Periodo fantastico? No, è un aggettivo che si usa sempre. Diciamo stupendo. Quattro anni vissuti al massimo, in una città strepitosa. Per me Catania è la Buenos Aires del Sud, in tutti i sensi. Vive di calcio, se sei un calciatore stai benissimo. Ma ha dei problemi e non si può nascondere. Comunque sono stato da Dio. Eravamo in quattordici. Da Barrientos a Bergessio, poi Castro, Maxi Lopez, un certo Papu Gomez. Ma anche Andujar, Silvestri, Izco. L’ho detto: stupendo. E lo è stato anche il primo anno. Mi piace ricordare Atzori, che è stato esonerato. Secondo me aveva fatto un ottimo lavoro, il problema è che in attacco mancava Maxi Lopez, che è arrivato con Mihajlovic e come toccava palla segnava. Prima avevamo Morimoto. Persona splendida, ma quell’anno non faceva gol nemmeno con le mani...”.

"Quei retroscena di mercato..."

Al Rimini giocava con Handanovic, a Catania con Gomez. Due tra i migliori della Serie A. “Si meritano tutto quello che stanno vivendo. Si capiva subito che erano fortissimi”, dice senza rimpianti o invidie. “Io penso che uno raccolga quello che semini. Ho scelto io di non andare via da Rimini, ho scelto io di restare a Catania nonostante mi volesse il Lanus, che è casa mia. O il Brescia: restai chiuso in un ristorante per quattro ore a parlare con il figlio del presidente Corioni. Pulvirenti mi aveva già venduto, ma io non me la sentii. Se sono arrivato in A a 31 anni è perché mi sentivo maturo solo in quel momento”.

Intanto, gioca ancora. A San Marino. Potrà tornare in campo il 21 febbraio: a causa di un doppio tesseramento (come giocatore di una squadra sanmarinese e dirigente del Catania: si poteva fare, poi le regole sono cambiate) è stato squalificato. “Il calcio è pieno d’invidia, purtroppo. Ma l’ho presa con il sorriso sulle labbra. Sono alla Virtus Acquaviva, una società ambiziosa, fatta da gente che vuole arrivare. Come me. Il ds è Matteo Guiducci, è partito da qui e vuole fare carriera. Io? Purtroppo il fisico non mi regge più come prima, adesso mi piacerebbe fare altro: allenare. Già mi capita con i bambini, ma mi sento pronto a passare al professionismo. Anche in Serie D: ho sempre fatto la gavetta, non mi spaventa. Anzi, è giusta. Penso comunque di essere stato un buon calciatore, a livello di pensiero, di idea della giocata. Questo conta più di tutto”.

Il pallone d’oro a Messi? “È una macchina da guerra, però non l’avrei dato a lui, ma a Salah: la Champions è più difficile del campionato, e gli attaccanti devono essere fuori dal comune”. Un po’ come quelli che ha l’Argentina. “Un bel problema”, ride. “Li metterei tutti in campo: Dybala, Lautaro, insieme con quel ragazzino piccolo che dicevamo prima. A volte penso che si debbano chiudere gli occhi e pescare a casaccio: questi devono giocare. Ma già la nostra difesa fatica parecchio, se mettiamo solo attaccanti diventa un problema...”.

Parla già da allenatore, forse quella maturità è arrivata davvero. Intanto, il bambino ha smesso di piangere. È tranquillo: “Eh sì, a volte fa proprio i capricci, deve crescere”. Adrian, invece, è già cresciuto. Ricorda, non rimpiange. Ah, per la cronaca: l’intervista è stata trascritta, non riscritta. Per un argentino arrivato ragazzino in Italia, è un bel segno di maturità.

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