Lazio, Inter, un bar e nuovi sogni. Mudingayi: "In Italia la mia vita è cambiata"

Lo chiami, risponde subito. La cadenza romana all’inizio ti spiazza ma ti mette subito a tuo agio. Anche perché chiunque parli di Gaby Mudingayi dice una cosa: un uomo squadra. Punto. E allora entri subito nel suo mondo, fatto di ricordi, di sogni realizzati e infranti. E di integrazione. Comincia a giocare in Belgio tra Unione Saint Gilloise e Gent; poi a 23 anni arriva la chiamata che gli cambia per sempre la vita. È Cravero, direttore sportivo del Torino che in Serie B cercava di riconquistare la promozione. “Mi vollero tanto sia lui, sia Zaccarelli. Accettai con entusiasmo”.

Un’avventura nuova, con la speranza di prendere il volo. “Mi hanno sempre coccolato lì”, racconta in esclusiva a Gianlucadimarzio.com. “I tifosi mi salutavano ovunque, mi incitavano tantissimo”. Era giovane, aveva voglia di imparare. Ma era arrivato in un momento difficilissimo. Era la stagione 2004/2005: davanti a 60mila persone il Torino riusciva a battere il Perugia nei playoff di Serie B e a passare in Serie A. Gioia di poche settimane: la Guardia di Finanza rileva un deficit mostruoso e delle irregolarità pesanti. La squadra fallisce e giocatori come lui, Sorrentino, Balzaretti, Quagliarella e molti altri finisco a parametro zero di punto in bianco. “Sarei rimasto lì a vita”.

Il nuovo presidente prima di Cairo, Gigi Marengo, ci prova. Ma c’era già la Lazio pronta a prenderlo. Tre stagioni a Roma. Si fa notare. “Ho scoperto la Serie A, uno dei miei momenti più alti in carriera”. Si stabilizza in biancoceleste, trova casa nel Lazio. Dove? “A Formia. Ci vivo tutt’ora”. Ha anche aperto un bar, ma vuole restare nel calcio: “Sto studiando per diventare un procuratore. Mi piacerebbe far conoscere i nuovi talenti e farli arrivare in Serie A”. Un po’ come è capitato a lui. Dalla Lazio si trasferisce al Bologna. Altre quattro stagioni e tante partite giocate, un record che nella stagione 2011/2012 condivide con Di Vaio e Portanova: 34 presenze in campionato. Continua a pagina 2

 

 

Un passo indietro rispetto alla Lazio? No, in realtà. Perché pur non lottando per le alte posizioni di classifica, diventa un idolo. E l’esperienza in Emilia gli vale il passaggio all’Inter. Era l’estate 2012, in panchina c’era Stramaccioni. Esordisce in Europa League, contro il Vaslui. “Ho conosciuto i compagni sicuramente più strani. C’era Nagatomo, tra i più divertenti che abbia mai incontrato. E poi c’erano Zanetti e Samuel: i più seri”. A Milano vive il sogno di fare un ulteriore salto di carriera. Ma un infortunio cambiò tutto: “Ho avuto paura di rifarmi male. Riprendere a correre, a contrastare, non è la stessa cosa”. Gli si era rotto il tendine d'Achille. Così, da toccare il cielo con un dito, a poco a poco viene messo da parte. Da Stramaccioni a Mazzarri: storia di un addio annunciato. C’è l’Elche sul suo cammino: “Mi voleva l’allenatore, Escribà. Ero pronto a ripartire, ma ci furono problemi burocratici. Mi trovai subito fuori squadra”. Quindi il ritorno in Italia, una parentesi al Cesena e una chiusura al Pisa. Prima di decidere di fermarsi.

Rimpianti? Nessuno” continua. “Tutto quello che ho fatto mi ha insegnato qualcosa. Credo di essere stato fortunato a giocare a calcio: porto rispetto a tutti i presidenti che mi hanno dato questa possibilità”. Il calcio è stata la sua vita: non vuole lasciarla. Combattendo anche una battaglia: “Quella che porterà a eliminare i razzisti negli stadi. Vanno presi a uno a uno e allontanati per sempre. Non amano il calcio”. Voleva dirlo, lo tiene volutamente all’ultimo, prima di chiudere la telefonata. “Non è possibile sentire ancora di questi episodi, non stiamo crescendo”. La sua speranza è anche questa. O meglio, il suo nuovo obiettivo.

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