"Il bel calcio è stato premiato": 50 anni fa Pallone d'Oro a Rivera

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Il soprannome di “Ragazzo d’oro” se l’è guadagnato ben prima del 1969. Risale a sei anni addietro, quando il suo Milan batteva i detentori della Coppa dei Campioni nella finale di Wembley. Il Benfica di Eusebio fu piegato dalla doppietta di Altafini, ma non fu lui, già campione del mondo col Brasile, ad attirare le attenzioni della critica, che invece era rimasta rapita dalla tecnica e dalla leggerezza della mezzala ventenne Gianni Rivera. Golden boy, lo chiamano. Un nome d’arte che in Italia ha successo e viene riproposto continuamente, e che poi viene ancor più legittimato quando esattamente cinquant’anni fa Rivera viene insignito del Pallone d’Oro. “Mi ricordo quando qualcuno cominciò a chiamarmi così. Ho avuto il torto di commuovermi qualche volta” disse a Giuseppe Grazzini in un’intervista concessa alla rivista Epoca.

A vederlo fuori dallo stadio, sembra impossibile che Gianni Rivera sia un giocatore di calcio. È troppo magro. È troppo fragile. Ha un viso affilato, quegli occhi inquieti sotto uno spazzolone di capelli dritti, quel modo di fare che hanno i convalescenti il primo giorno che il medico li lascia alzare”.
- Giuseppe Grazzini su Epoca, 17 aprile 1966

Gianni Rivera ha sempre vissuto seguendo una certa rigidità. Oriana Fallaci, in un’intervista dopo la vittoria di quella Coppa dei Campioni, gli disse che era una persona ferocemente perbene e davvero poco allegra e che però forse era un bene, perché la gioventù era una delusione. Lui non ha avuto il tempo per viversi appieno quella fase. L’esordio a 16 anni con la maglia dell’Alessandria, lo stipendio da 80 mila lire al mese e l’immediato acquisto del Milan l’avevano esposto a una responsabilità enorme, che quelle spalle gracili hanno sempre saputo reggere. È come se dai primi calci tirati con le scarpe da passeggio, dalle prime partite giocate in oratorio da don Carlo, don Piero e don Ceschia, sia stato subito proiettato nel calcio professionistico. E le preoccupazioni non erano di poco conto, c’era anche da diplomarsi da computista commerciale. Perché Rivera non è mai stato in grado di vivere soltanto il presente, in campo e fuori. I primi stipendi, per sua disposizione, li amministravano papà e mamma, che gli davano qualcosa per le spese settimanali. D’altronde, a chi verrebbe in mente di aprire un’agenzia di assicurazioni a 23 anni per un investimento da trovarsi dopo la vita da giocatore.

Se Barnard mi vedesse il cuore scoprirebbe che non è solo rosso: è a strisce…
- Gianni Rivera in un’intervista di Attilio Neri su Bolero, 31 marzo 1968

RIVERA: "IL MILAN HA BRUCIATO TROPPI ALLENATORI"

Il destino con Rivera non ha voluto sentire ragioni: doveva essere lui e doveva essere al Milan. Arriva quando papà Teresio e mamma Edera stanno provando a riconquistare la forza di fidarsi del mondo, dopo la morte a soli nove mesi della primogenita Maria Luisa. Nasce così Gianni, che deve però battezzarsi come Giovanni: non si possono dare nomi che non abbiano dei santi corrispondenti, dicono ai genitori. Così allo stesso modo l’allora direttore generale del Milan, Gipo Viani, lo vede in un provino e sotto le pressioni dei suoi calciatori se ne assicura la metà del cartellino nel 1959: a fine stagione sarà interamente acquistato dai rossoneri. Ed è l’inizio di un’era, dal trasloco dalla alessandrina via Pastrengo 1 fino all’ottavo piano milanese di piazzale Velasquez 7: anni di successi, personali e di squadra, che lasceranno intatta la sua impronta anche quarant’anni dopo il suo ritiro dal calcio giocato.

In suo onore (si fa per dire) fu coniata una delle espressioni di maggior successo del vocabolario calcistico: ‘abatino’. Gianni Brera, il più feroce critico di Rivera, intendeva significare che Rivera non aveva le qualità fisiche e psichiche pari a quelle di stile e di classe. […] Tutta l’Italia calcistica si divise in guelfi e ghibellini”.
- Giorgio Martino su Il Tifone, 27 marzo 1973

Il calcio bello è stato premiato” titola nelle pagine sportive il Corriere della Sera, all’indomani dell’assegnazione del premio a Rivera. “Sono stati esaltati quei valori tecnici che troppe volte vengono sacrificati al demagogico culto per il risultato” si legge ancora, quasi anticipando la disputa manichea che si sarebbe riproposta anche ai nostri giorni. Questa come quelle che mettono in discussione il valore di un calciatore, che si prova a sminuire in un turbine di statistiche e paragoni. E oggi come allora però, fortunatamente, c’è sempre un Rivera che finirà per mettere tutti d’accordo. O che perlomeno ci va tanto vicino.

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