Libidine Trapani, Italiano: "Come un luna park sennò rimaniamo a casa"
Coraggio. E’ il valore differenziale per la realizzazione delle nostre vite. In un mondo che spesso, troppo spesso, ci induce nella direzione opposta, del comodo, del tranquillo (e controllato) ‘rischio zero’. Dobbiamo avere coraggio, in ogni ambito della nostra vita. Dobbiamo vivere in simbiosi con il coraggio: custodirlo e accettarlo per quello che è. Ma non precludiamoci mai al coraggio. Chi osa, (probabilmente) vince. Chi non osa, ha perso prima di giocare. Non è calcio, non è matematica, non è sociologia. E’ vita.
La vita di Vincenzo Italiano, attuale allenatore del Trapani (primo nel girone C di Serie C con tredici punti in cinque giornate, non a caso…). Una vita – mai – da mediano. Perché non è la posizione che ricopriamo a dar peso alla nostra esistenza, ma è come la interpretiamo. Come raccontiamo, con le parole e le azioni, chi siamo veramente. E’ qui il coraggio, signori. Nel non nascondersi dietro un tanto convenzionale quanto inutile velo di maya che caratterizza la stragrande maggioranza delle interviste calcistiche. I nostri eroi (mi viene da ridere) si nascondono, ma da che cosa si nascondono? Da chi gli permette di avere stipendi da ultra privilegiati?
Vincenzo Italiano ci piace proprio perché non si nasconde. Racconta se stesso, parla senza filtri… “Sono italo-tedesco, ma solo all’anagrafe. Sono nato in Germania, ma dopo sei mesi i miei genitori sono tornati in Sicilia quindi mi reputo siciliano a tutti gli effetti. Il tedesco? Cumpà che ti devo dire, non lo so…”. Ventidue anni dopo il ritorno a casa. L’Isola è sempre l’Isola. La ami quando la vivi, ti manca da morire quando sei lontano… “Pensa, ventidue anni fa, il Trapani è stata la mia prima squadra da calciatore professionista ed oggi è la prima squadra da allenatore professionista. Il destino aveva progettato questo per me ed io ne sono molto felice. Mi sono avvicinato alla mia Ribera. Mi sembra di esser tornato indietro nel tempo ai ruggenti anni ’90 quando da ragazzino appena diciannovenne mi affacciavo al calcio vero”.
Poi una valigia e un biglietto di sola andata per Verona. Quel ‘vado a fare i cartoni’ caro a molte famiglie italiane, alla ricerca di un qualcosa di nuovo e – giustappunto – migliore per la propria esistenza. Il coraggio di lasciare la propria terra, le proprie radici. Il coraggio, già. Che è lo stesso di chi oggi si fa undici ore in mezzo ad un mare con l’incertezza di toccar di nuovo terra. Il calcio allieta tutto, rende tutto magico e migliore. Ma il calcio è pur sempre parte della vita, di un ragazzino di diciannove anni che dalla sera alla mattina parte e va a più di mille chilometri da casa, da solo… “Beh all’inizio non è stato facile, tutto nuovo. Vi racconto un aneddoto, anche simpatico, io in Sicilia non avevo mai visto la neve. Quando, a dicembre, uscii di casa e vidi tutto bianco in terra mi spaventai… Cavolo e ora che bisogna fare? (ride). Scherzi a parte, Verona sarà per sempre parte di me. Lì ho conosciuto Raffaella, la donna della mia vita, che mi ha regalato due splendidi bambini. Poi l’Hellas, undici stagioni indimenticabili. Dalla prima volta nello spogliatoio con i vari Corini, Paganin e De Vitis che prima avevo visto solo nell’album delle figurine all’emozione di giocare per quei tifosi, per quella maglia. Giocare nell’Hellas Verona è un’emozione perpetua impossibile da descrivere, ogni calciatore per almeno una stagione nella sua vita calcistica dovrebbe indossare quella maglia per capire cosa significhi”.
Il passaggio al Chievo Verona, poi il Padova. Due tappe significative di una carriera lunga, avvincente, battagliera. Il minimo comune denominatore del pallone tra i piedi, sempre. “Se, in campo, stavo per trenta secondi senza toccarlo mi sentivo male”. Il pallone, già. Dal campetto di Rubiera alla fredda-calda Verona. Lui c’è sempre stato nella vita di Vincenzo Italiano. Un mediano atipico, lì ad impartire ordine davanti alla difesa. Non il solito play, del passaggetto a mezzo metro ed ‘il mio l’ho fatto’. Perché – per fortuna – ci è concesso libero arbitrio e possiamo scegliere, liberamente, la nostra identità. Le strade sono due. Ce n’è una, la più sicura, lineare e uniforme, ma ad un certo punto si ferma, si chiude: più in là non ci puoi andare. Poco male nell’istante esatto in cui arrivi alla fine (‘il mio l’ho fatto’), ma tra vent’anni? Tra trenta? Come spiegherai a te stesso il motivo per il quale hai deciso di non percorrer la seconda strada? Come appagherai l’insaziabile sete di rimpianto?
Ma per percorrere la seconda strada, quella arida, impervia, faticosa, quella del sudore che gronda dalla fronte, serve averla mangiata la strada. Ma quella vera! Quella delle ginocchia sbucciate, delle sculacciate di mamma per aver saltato i compiti il pomeriggio, dei ragazzini più grandi che tra una legna e l’altra, alla fine avevan sempre l’ultima parola. “Quando ero ragazzino – racconta Vincenzo Italiano ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – a Ribera c’era un campettino per giocare a calcio che era contesissimo. C’eravamo noi, ‘i piccoli’ e poi c’erano i temutissimi ‘grandi’. La legge della strada è chiara: chi arriva prima si prende il campo. Ma quando arrivavamo noi per primi, i grandi si mettevano fuori dalla rete e cominciavano a urlare a squarciagola una frase ben precisa che ancora oggi me la immagino davanti ogni secondo prima del calcio di inizio di una partita… ‘Chi perde, esce!’. Ma perdere aveva un significato esistenziale per i nostri interminabili pomeriggi: significava tornare a casa con il broncio perché loro avrebbero giocato fino a sera e noi al massimo saremmo potuti rimanere lì fuori a guardarli. Da quel momento ho cominciato ad odiare la parola ‘perdere’. E quell’odio me lo porto dentro oggi, immaginandomi quel frammento in cui me ne torno a casa tutto triste perché per quel pomeriggio non avrei potuto giocare a pallone. La parola perdere la odio, mi da fastidio, mi provoca nausea. Se perdo sto male, non posso perdere”.
Lo si evince ben bene dal suo stato WhatsApp, ‘Io non gioco contro una squadra in particolare. Io gioco per battermi contro l’idea di perdere’. Una frase pesante, la quale implica ben più di un istante di riflessione – in primis – su quanto stiamo sbagliando nelle scuole calcio a crescer i bambini come polli da allevamento. “Questa locuzione in realtà l’ho rubata a Cantona, gliel’ho sentita dire e mi ci sono molto immedesimato. Mi fa riveder me trent’anni fa al campetto a lottarmi la sopravvivenza…”. Uno slogan da mescolare, con cura, con un’altra frase altrettanto significativa. Veritiera nella sua dimensione più assoluta, un manifesto programmatico che ogni tesserato FIGC dovrebbe riquadrettare in un angoletto di casa… “Come dice Klopp noi non salviamo vite umane, non siamo scienziati, non siamo super-eroi, oltre il calcio noi non siamo niente. Abbiamo un compito, un obiettivo: far divertire la gente. Questa è la mia filosofia, sia prima da calciatore che ora da allenatore. Io mi devo divertire e devo far divertire. Non ci sono mezzi termini o è così o niente. Se devo vivacchiare per il punticino, per il calcoletto o per dodici difensori dietro la linea della palla, sapete cosa me ne faccio: sto a casa. Faccio un favore, a me stesso e alla gente che viene allo stadio!”.
Ad Arzignano (Serie D) anno scorso aveva costituito un vero e proprio luna park, Vincenzo Italiano. Dai 40 paganti della prima giornata ai 600 della finale playoff (vinta!). 75 gol fatti in campionato, 90 complessivi. Fraseggi, propositività, attacco: coraggio, coraggio, coraggio. Come quel pomeriggio di fine luglio, “quando dopo mezzo secondo di chiamata dell’Ad del Trapani sono preso e sono partito. Il giorno dopo abbiamo giocato in Coppa Italia contro il Campodarsego! Esordio in panchina ventiquattrore dopo la firma, se non è un record poco ci manca!”.
Quando parliamo, in profondità, di calcio, Italiano s’illumina d’immenso. Un po’ come la classifica del suo Trapani: tredici punti in cinque partite, quattro vittorie e un pareggio. Al diavolo i numeri, viva l’aspetto ludico. Viva il coraggio, viva la sfrontatezza, viva il divertimento… “Il mio sistema di gioco deve far divertire giocatori e tifosi. Non m’importa più di tanto dei risultati, se i ragazzi o i tifosi non si divertono, ho perso anche se abbiam vinto 3-0! Dobbiamo essere positivi, propositivi e coraggiosi. Verticalizzazioni e ampiezza degli esterni nel 4-3-3. Tenere palla, giocarla in avanti, fraseggiare attacando! Dobbiamo esser quelli che voglion fare un gol in più degli altri, non quelli che vincono 1-0, non quelli che aspettano lo schiaffo degli altri per giocare. Concludo dicendo una cosa, soprattutto ai più giovani, a chi domani, per la prima volta, metterà piede in una scuola calcio: abbiate coraggio, in primis di essere voi stessi”.
Il calcio è qui, in questa dimensione. In Roberto De Zerbi, in Mauro Zironelli, in Vincenzo Italiano, in tutti quelli che hanno il coraggio di portare avanti le proprie idee in un mondo che rema – tristemente – verso la direzione opposta. Ma – e qui un po’ profanamene prendo in prestito una citazione aulica – che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare per forza così…