Eriksson, lontano: “Lazio, sono già 120?”
Che anno è, che giorno è: 2020, 9 gennaio. 120 volte Lazio. “Wow! Così tante?” Il tempo vola, Sven Goran. “E per me lì è stato fantastico. Una squadra enorme, abbiamo vinto tanto e giocato anche un gran bel calcio”, inizia a raccontare per GianlucaDiMarzio.com lo stratega del secondo scudetto biancoceleste. 187 partite, 106 vittorie, 340 gol. “Con sette titoli in tre anni”. Quelli se li ricorda bene.
Il cuore ce l’aveva già, la Lazio degli anni ’90. Batteva con Zoff, Zeman e Signori. Soprattutto con Sergio Cragnotti, presidentissimo e primo tifoso. “Piangeva di gioia, ogni volta che la squadra vinceva”. Il problema è che mancavano i trofei, ancora dall’impresa del ’74. “Sono arrivato grazie a lui e me lo disse chiaro e forte sin dal primo giorno: ‘Siamo qui per vincere, mister’”. Eriksson nel 1997 portò la mentalità. E la provincia divenne Italia, Europa. “Quella Serie A era il campionato più bello del mondo, aveva il prestigio che oggi ha la Premier. Il gruppo era già forte: si trattava solo di fare quel passo in più”.
Che strana coppia, l’aplomb giacca e cravatta dello svedese con la lazialità vulcanica di Porta Metronia. “Forse sì, io e Cragnotti eravamo diversi”, sorride vent’anni dopo l’allenatore. “Ma abbiamo avuto un ottimo rapporto professionale. E siamo diventati amici. Lui è un grande uomo. Un emotivo”.
Un giorno l’eccitazione avrebbe travolto anche Svengo: “Quello dello scudetto. Ma più della partita mi ricordo molto bene cosa succedeva dopo la partita”. 14 maggio 2000, la Lazio stende la Reggina e aspetta. “40-45 minuti in cui nessuno ha fatto la doccia o si muoveva. Lo spogliatoio muto”. Se la Juventus vince al Curi sarà un altro campionato sfuggito al fotofinish. Ma a Perugia piove, piove, piove. “Cosa facevo io? Camminavo, penso. Nervoso. Non si poteva fare niente. Solo aspettare e ascoltare la radio”. Calori. “E lì, una liberazione. Fu tutto così particolare: non ho mai vissuto niente di simile nel calcio”.
L’apice, prima del divorzio. Solo sette mesi dopo. Un altro storico 9 gennaio: “Sono stato molto indeciso sul da farsi”, spiega Eriksson. “Ma l’Inghilterra mi aveva offerto di fare il ct: era una grande occasione per me. Sono nato e cresciuto con il calcio inglese alla tv. Chissà, magari ho sbagliato ad andare via. Magari no. È andata così”. I rimpianti sono altri, pochi. “Forse si poteva vincere lo scudetto una o due stagioni prima”. O andare in fondo in Champions League, recente ammissione di Cragnotti.
Sempre nell’anno del centenario, occasione ad oggi irripetibile: la Lazio piega lo United del treble in Supercoppa, ne fa 5 al Marsiglia (4 di Inzaghi), sbanca Stamford Bridge. Poi, ai quarti, sbatte sul Valencia. “Quella è stata una brutta partita. E devo dire che gli spagnoli mi hanno sorpreso tantissimo”, tutta la sincerità dell’allenatore. “Correvano di più, erano più aggressivi. Non mi aspettavo un Valencia così forte. Sono stati semplicemente più bravi di noi”.
"Mancini lo sento, Inzaghi lo chiamerò. Ma Nesta cosa fa?"
Sono passati vent’anni, dal 5-2 del Mestalla. Oggi Eriksson ne ha quasi 72. L’ultima esperienza sulla panchina delle Filippine, i contatti ancora aperti con l’Italia grazie all’agente Alessio Sundas e ora… “In vacanza a Panama. La prossima settimana torno in Svezia e lì deciderò se continuare ad allenare”. Giro del mondo e di vite: fa un certo effetto, ripensare a quella squadra e ai suoi protagonisti. “Con Mancini mi sento ancora spesso”: nove anni tra Samp e Lazio non si dimenticano. “È chiaro che con lui c’è stato qualcosa di particolarmente intenso. Ma non voglio parlare di Roberto per non fare un torto agli altri. Tutti sono stati forti. Dei veri vincenti, determinazione da vendere anche fuori dal campo. Mi fa molto piacere che tanti di loro siano diventati allenatori e dirigenti di primo piano”.
Mancio in Nazionale, Simeone all’Atletico, Nedved alla Juve. E poi Sinisa, Conceiçao. Altri però sono più difficili da tenere d’occhio. Salas produce mirtilli e gestisce una scuola calcio in Cile, Boksic vive in Croazia in un’isola tutta sua. “E Nesta, cosa fa adesso?” Allena il Frosinone, Sven! “Ah, non lo sapevo. Grande, grande difensore”. Gli si scalda la voce: impossibile pensarlo in altre vesti.
Inzaghi invece sì. Di questi tempi, di questa Lazio. “Sono veramente contento che sia di nuovo così in alto”. Contro il Brescia, Immobile e compagni hanno centrato la nona vittoria consecutiva in campionato. Per la seconda volta nella storia biancoceleste: indovinate chi c’era già riuscito. “Eh sì, Simone mi ha raggiunto!”, l’applauso del maestro. “Non l’ho ancora sentito, ma se sabato batte il record voglio chiamarlo”.
L’entusiasmo a Formello è alle stelle, si accende anche quella di Eriksson. “Magari, continuare così e tenere il passo delle prime due”. Ma è lontana: possibile, la più vincente della storia biancoceleste? “Lo ammetto, non seguo il calcio italiano così spesso. Qualche volta ho visto la Juve o l’Inter, poche volte la Lazio. Non so nemmeno qual è stata l’ultima. Ma ricordo che la squadra aveva giocato molto bene. Un gran bel calcio”. L’aveva già detto per la sua. “No, conosco troppo poco la Lazio di oggi. Non è giusto parlarne oltre”.
Che festa sia, allora. “Alla società, alla squadra, ai tifosi: tanti auguri per questi 120 anni. Bellissimi, brutti qualche volta: questo è il calcio. Però mi sembra che il futuro splenda di nuovo. Forza Lazio sempre”.
La storia scorre d’un fiato, ora Inzaghi aspetta una telefonata. Passo dopo passo. Forse un po’ meno nervoso, di quella volta che uno svedese in mezzo a Roma sparì nel fiume scudetto più strano di sempre. Un romanzo di nome Lazio.