La rivoluzione di Gillet: "Il calcio è cambiato a Bari"
C’è chi il cambiamento lo sogna. Chi, invece, ne ha fatto parte. E lo sa, se ne rende conto. È la storia di François Gillet. Professione portiere. Lui, che a Bari e col Bari ha fatto la storia. Diventando protagonista di un nuovo concetto di calcio che parte proprio da lì, dalla porta. “Avevamo un potenziale incredibile”, racconta a Gianlucadimarzio.com. Con un po’ di rammarico per quello che è stato e quello che non è potuto diventare. “Sarà stato sfruttato al 10-20%”. Aveva Conte, poi Ventura. “Rivoluzionari”.
"Si sono accontentati"
“Allo stadio si veniva a vedere giocare a calcio, per quattro anni è stato così. Ma poi è emersa quella maledetta mentalità per cui una volta che raggiungi un obiettivo, puoi, come si dice, stare bbun”. Stare bene. Bari gli è entrata nel cuore, nel sangue. “Non si è voluto costruire, provare a mettere il mattone successivo. E non si è sfruttato quell’enorme potenziale. La società era forte, si poteva fare davvero bene: si era creato un legame tra squadra e città, potevamo diventare come un secondo Chievo Verona. Se non un’Atalanta”.
Il discorso di Conte
È informatissimo del calcio italiano, gli è sempre piaciuto. Ed è stato al centro di una vera e propria trasformazione: quella del portiere-giocatore. “Furono proprio Conte e Ventura i primi a farlo. E lo avevano chiesto a me. Ora i portieri li fai crescere così: 50% piedi e 50% mani. Io mi ricordo le strigliate che mi prendevo per una cosa che credevo assurda: non dovevo rinviare. ‘Non ti preoccupare’, mi dicevano, ‘se sbagli non è un problema. Ma gioca la palla sempre’. Il vero problema era non avere paura” non dice propriamente così. Parafrasiamo. “Non dovevo avere paura, per niente. Mi dicevano che subivamo di più quando rinviavo, piuttosto che quando la giocavo in difesa”. Più palla, più palle.
Sono stati convincenti. Con le buone e le cattive. “Ma con Conte è sempre stato così. Io e il mister andiamo molto d’accordo, non gli ho mai visto sbagliare un discorso. È un po’ psicologo e… un po’ filosofo. Se sei intelligente, capisci che ha ragione, che la sua è scelta vincente. Quando era arrivato, io ero in scadenza: stavamo facendo l’ennesimo anno di Serie B, pensavo di andarmene. Si è presentato, ha fatto un discorso alla squadra. Fu come una luce in mezzo al buio”.
Bari, poi Juventus e Inter, per Antonio. Nel mezzo pure Chelsea e Nazionale. “Una volta che arriva lui, cambia tutto”. A Torino, François ci è stato pure, sponda granata. “Ci stavo già andando in Serie B, il primo anno di Ventura, un altro allenatore con il quale ho lavorato davvero bene. Ma il Bologna mi aveva cercato tanto e mi prospettavano la Serie A. Ci sono arrivato l’anno dopo, stagioni difficili”. Il processo, la squalifica, le voci, il fango. “Ripartire non è stato facile: dopo un anno mi sentivo in forma e volevo giocare. Ma era stato deciso che non avrei più visto il campo”. E allora: “Ho sbroccato”. Sic.
Padelli, Cerci, Immobile e gli ex compagni
Colpa di Padelli? “Assolutamente no. Con Daniele siamo molto amici. Giocava lui, e si merita di essere ora all’Inter, ha avuto una bella carriera”. Di compagni ne ha avuti tanti. Qualcuno in particolare? “Cerci. Quality Cerci, anzi. Lo chiamavo così. Era qualità pura: è un peccato che non sia riuscito a sfondare all’Atletico”. Con Immobile a Torino fece un’annata devastante. “Ciro è fortissimo. Con lui mi sono solo allenato, ma lo si capiva subito: davanti alla porta era micidiale. E poi, non posso non ricordare Bonucci”. Tempi di Bari. “Ero sicuro sarebbe diventato una bestia: gli davo la palla con l’uomo alle spalle e lui giocava sempre avanti. Aveva una grande personalità”.
Torniamo a Torino: “Avrei dovuto aspettare. Ho sbagliato ad andarmene via, ma dopo tutto quello che era successo, mi sembrava un’altra bastonata. E non ne volevo più sapere. Sono tornato a casa mia, in Belgio”. Prima il Mechelen, per un anno. Poi il ritorno allo Standard Liegi, dove gioca ancora. L’aveva lasciato nel 1996, lo ha riabbracciato nel 2016.
“Ho pensato di finire qui la mia carriera, avevo quasi 40 anni. Firmai per due. Poi mi hanno anche rinnovato il contratto per un altro biennio, per aiutare a far crescere i giovani. Intanto mi alleno, mi tengo in forma, e faccio il viceallenatore nell’Under 15”. L’obiettivo? Restare nel calcio. “Avevo iniziato a studiare per il patentino da allenatore quando pensavo di smettere. Voglio provare, capire se riuscirò a essere me stesso anche in questo caso, o se non è per me. Voglio provare”. E magari tornare in Italia. “Mai dire mai”, chiude. “Conosco la cultura, il cibo, la lingua”. Inutile dire che parla in italiano. Piccola cadenza barese, qualche forma piemontese. L’Italia gli è rimasta nel cuore, come ogni rivoluzionario che si rispetti. E lui, la rivoluzione, l’ha vissuta.