Addio Gianni Mura, cantaglorie e appassionato di vita

Non gioco più, me ne vado. Che strano tenere adesso in mano quel libro, con un titolo che a lui non era mai piaciuto. “Lo ha scelto l’editore, io non me ne vado affatto e continuo a raccontare. Per fortuna”, diceva Gianni Mura nel 2013. Quell’anno usciva il riassunto del suo lavoro. In meno di 500 pagine, la raccolta di centinaia di articoli scritti su calcio e ciclismo, le sue passioni più grandi. Prima raccontate alla Gazzetta, poi su Repubblica. “Non ho scelto io di fare il cronista sportivo. Mi ha chiamato la Gazzetta. Avevo vent’anni e ho iniziato. Lo sport ha scelto me, non il contrario”. 

Era il 1965. Quel ragazzo milanese, da poco iscritto a Lettere, ancora non sapeva che quella laurea non l’avrebbe mai presa. In compenso, milioni di italiani avrebbero vissuto e rivissuto le emozioni sportive nelle sue frasi.
Sempre originale e spiazzante. Anche adesso, che se n’è andato davvero. Stroncato da un infarto mentre l’Italia muore per colpa di un virus. All’alba di una primavera che vediamo filtrare dalle persiane, nel mezzo di un periodo così simile a quelle “curve cupe dei Pirenei”. O al Ventoux, la montagna più temuta del Tour. Per descriverla aveva preso in prestito le parole di un grande semiologo francese Roland Barthes. “Il Ventoux è un dio del male al quale bisogna offrire sacrifici”. Gianni Mura non guardava le citazioni su internet. Aveva letto, tantissimo.

Brera lo considerava il suo erede, insieme a Oliviero Beha. Nessuno di loro è più in vita. Facile immaginarseli ora, se davvero c’è vita dopo questo passaggio terrestre, da qualche parte a scegliere il vino migliore. Che per Brera sarà stato certamente il Barbacarlo di Lino Maga, poderoso rosso dell’Oltrepò Pavese. All’altro Gianni andrà bene. L’importante è non scegliere un posto con le apparecchiature senza tovaglia. Gianni Mura lo ha scritto spesso, girando l’Italia insieme a sua moglie. Da anni curava insieme a lei una rubrica gastronomica: un tour fra osterie e ristoranti meno conosciuti per riscoprire vecchi sapori o conoscerne di nuovi. Odiava la spettacolarizzazione degli chef e le app piene di commenti poco qualificati. Non si fidava del sentito dire. Vecchia legge del cronista applicata anche alla cucina. 

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Scriveva di cucina e continuava a scrivere di calcio. Amava l’Atalanta di Gasperini, uno che “Brera avrebbe invitato a sedersi al suo tavolo”. La maglietta esibita dall’Atalanta a Valencia lo aveva emozionato e lo aveva scritto nel suo ultimo pezzo. Lì definiva “imbecilli” Diego Costa, Gobert e i tifosi del PSG. Perché le parole non vanno misurate, quando c’è in gioco la sopravvivenza. Perché per chi ha amato così tanto la vita, nella sua pienezza, sembrava incredibile questa reclusione. Ma necessaria. E allora sì, forse ha davvero avuto un senso quel titolo. Non gioco più, me ne vado. Non l’ha scelto lui, ma l’ha fatto. E siamo più soli. Ancora più di ieri. Rileggiamo Benedetti undici metri: l’articolo che scrisse nella notte di Berlino dopo che siamo diventati campioni del mondo per l’ultima volta. O M’illumino di Pantani, scritto nel 1998. “Più si sale e ci si avvicina al cielo, più questo cuore, batte, ribatte, combatte”. Abbiamo bisogno di ispirazione in questa montagna da scalare. Restando fermi. Magari con un libro in mano, anche se il cuore di uno dei più grandi ha appena smesso di combattere.

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