Le verità di Coco: "Mai preso cocaina. Ancelotti mi rivoleva, Galliani no"
Crescere per tornare bambini. Guardarsi indietro, fermarsi, ripensare a una vita messa nella centrifuga, tra flashback e scatti. Quelli sulla fascia sinistra e quelli dei fotografi. Calciatore, personaggio, divo, dimenticato. Prima idolo, poi reietto. Francesco Coco ha vissuto questa parabola sulla propria pelle. Ha vestito le maglie di Milan, Barcellona e Inter, giocato un mondiale, poi rischiato di non camminare più per un’operazione andata male.
Il calcio gli ha dato soldi, donne e popolarità. “Ma nessuno pensa ai sacrifici fatti per arrivare a certi livelli. Quanta fatica costa realizzare un sogno. Perché quello è stato il calcio per me, anche se poi è diventato un incubo”. L’uomo che parla oggi, in esclusiva su gianlucadimarzio.com, ha 42 anni, un’agenzia di comunicazione in Lombardia, una scuola calcio a Napoli e una montagna di sassolini da togliersi. “Rientro nel calcio, con un gruppo di amici, tra cui l’agente Fifa Fulvio Catellani e lo scout Sasà Varriale, ripartendo dall’emozione degli occhi dei più piccoli. Rivedo la luce dei miei giorni migliori, i primi con un pallone ai piedi. Lì è tutto bello, poi arriva la parte difficile”.
DAL CAMPO ALLA TV, DRIBBLANDO BUGIE: “LA COCA MI FA SCHIFO”
Doveva essere l’erede di Maldini, ma oggi Google, digitando il suo nome, suggerisce solo pagine extracalcistiche. Ignora 154 presenze in serie A, due scudetti vinti, 17 presenze in azzurro e un’avventura, primo fra i calciatori italiani, nel Barcellona.
Francesco Coco oggi è solo Francesco. È tornato nella sua casa di Legnano, in provincia di Milano, dopo aver vissuto per nove anni all’estero, fra New York, Parigi e Doha. Ha commentato il calcio da studi patinati, lontano dall’Italia, dai veleni, dai pregiudizi e dalle bugie. “Hanno detto persino che ero andato a Hollywood per fare l’attore. Mi viene da ridere: ho sempre rifiutato anche le parti piccole nelle fiction. Ho partecipato all’Isola dei Famosi nel 2007 per l’amicizia che mi lega a Simona Ventura. Lo rifarei: è tutto vero là e a me è servito molto”.
Per riflettere e per stare lontano dalle menzogne più dolorose. Una su tutte. “Non ho mai toccato la cocaina. Non mi è mai interessata. L’educazione che mi ha dato mia madre mi ha sempre tenuto alla larga da certe schifezze. Dicevano che mi drogavo anche quando giocavo. Avrò fatto 1500 prove antidoping, altri prelievi del capello a sorpresa: mai niente. Bastava una serata fuori, una bella ragazza accanto e automaticamente ero un tossico. Ho accettato ogni cattiveria, ma questa non l’ho mai sopportata”.
DALLE FOTO SULLA BARCA AL … BARÇA. COCO: “CHIESI A GALLIANI DI ANDARE VIA”
“Il calciatore ha solo un modo per rispondere: il campo. E finché sono stato bene, non c’era bisogno di aggiungere parole”. La trafila nelle giovanili del Milan, l’esordio a 18 anni da titolare, con Capello in panchina, accanto a Baresi e Costacurta. La consacrazione con Zaccheroni in panchina. Il 26 settembre del 2000 in un Camp Nou stracolmo, vive una notte magica di Champions: gol di testa e assist per Bierhoff. Il Milan diventa la prima squadra italiana a vincere là dentro, Coco è l’uomo copertina: “Mi riuscì tutto, ma forse quell’anno giocai anche partite migliori. Mi sentivo uno della famiglia. Ero l’ultimo prodotto delle giovanili dopo Albertini a giocare regolarmente in prima squadra. Credevo che sarei rimasto a vita, mi vedevo già capitano”. Era solo un’illusione.
Estate 2001, odissea nello spazio di due mesi. Poche settimane prima che New York vivesse un’improvvisa apocalisse, la carriera rossonera di Coco precipita in due riprese.
Primo atto: due paparazzi scattano delle foto a un gruppo di ragazzi in barca al largo delle Baleari. Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan, viene informato. “Stavo prendendo il sole nudo in barca coi miei migliori amici. Questo c’era nelle foto: sorrisi e qualche costume in meno. Niente di sessuale”, afferma oggi Coco.
Nel 2008, al processo Vallettopoli - quello con Corona imputato - Galliani ha detto di avere pagato un’agenzia fotografica per togliere quelle foto dal mercato. Cifra corrisposta, 36 milioni di lire. Soldi - testimonia l’ex ad rossonero al processo - successivamente prelevati dal contratto del giocatore senza preavviso. “Per me potevano anche uscire, non c’era nulla di compromettente. Accettai la decisione del Milan di non consentirne la diffusione, meno quella di pagare di tasca mia per qualche foto rubata”.
Ma la vera crepa arrivò sul campo, con pantaloncini e maglietta addosso. In quelle torride settimane, il Milan aveva liquidato Zaccheroni e ingaggiato il turco Fatih Terim per la panchina. “Ci scontrammo subito. Era un’antipatia a pelle. Voleva riportare Maldini a sinistra. Avrei fatto solo panchina, nell’anno che portava al Mondiale”. Nel frattempo, il Barcellona, memore anche della serata di Champions, lo aveva richiesto. Proposta respinta, anche perché Terim “sembrava essere tornato sui suoi passi. Giocai per tutto il precampionato ma a Brescia, alla prima, andai in panchina”. Subentra per sostituire l’infortunato Rui Costa. Una grande prova personale, ma anche la convinzione di non essere più nel posto giusto. “Il giorno dopo andai da Galliani a Milanello e chiesi la cessione al Barcellona”. Prestito con diritto di riscatto, scelta obbligata dagli ultimi giorni di mercato. In Spagna gioca quattro volte contro il Real, senza mai vincere. “Uscimmo contro di loro in semifinale di Champions. Era una guerra di mondi, molto più di un derby”. A Barcellona viene apprezzato, riconquista l’azzurro e lega con Puyol: “Un grande compagno. Mi aiutò a cercare casa e per un periodo mi sbrigò anche personalmente le pratiche burocratiche”. Poi arrivarono le chiamate da Milano. Da sponde diverse.
L’ESTATE DEL 2002, FRA COREA E ANCELOTTI. COCO: “SAREI CORSO AL MILAN, MA…”
Bella Barcellona, ma l’Italia chiamò. “Prima l’Inter. Da gennaio iniziai ad avere contatti per andare là. Poi però, alla fine di aprile, arrivò la telefonata di Ancelotti”. Terim era durato tre mesi, Carletto aveva preso il suo posto. “Due ore al telefono per convincermi a tornare. Per lui sarei andato a piedi a Milanello ma dissi che volevo che Galliani mi chiedesse in ginocchio di tornare”. La possibilità di tornare a casa cadde. Una settimana dopo Coco, insieme a Puyol e Xavi, guardava alla tv l’inizio della sua fine. Era il 5 maggio del 2002: Lazio-Inter 4-2. “Capii che sarebbe stato difficile uscire da quel tunnel per tutti”.
Ma in quell’estate, ne attraversò un altro, senza mai trovare la luce. In Corea del Sud, contro la Corea del Sud e Byron Moreno. Fuori agli ottavi di Coppa del Mondo, “per colpa di un arbitro che ci guardava con occhi da ebete prendendo decisioni folli. Ricordo quello sguardo perso nel vuoto e l’odore di aglio dello stadio: irrespirabile. Non fu una partita di calcio, la sensazione in campo era di non potere uscire vincitori in alcun modo dal campo”.
Castigati da un golden gol, ma non solo. Coco giocò tutti i 116 minuti. Buona parte con un ‘turbante’ insanguinato. Segni di una partita che lascia ancora cicatrici.
L’INTER E QUELLA MALEDETTA OPERAZIONE: “SEI MESI A LETTO”
La vita può cambiare in un momento. Sudden death, regola accantonata. Morte improvvisa, nome forte ed evocativo. Quel 18 giugno andò così. La Fifa tolse quella regola dopo il mondiale, eppure Coco ebbe un’altra sorta di morte sportiva. “Tutto cominciò nel novembre del 2003. Un dolore fortissimo alla gamba sinistra e in tutta la zona lombare dopo Inter-Ancona. L’inizio della mia fine”. Un problema al nervo sciatico, il calvario alle porte. “Lo staff medico suggerì una piccola operazione per disostruire il nervo. Stimarono i tempi di recupero intorno ai 40 giorni. Rimasi fuori un anno e tre mesi. Qualcosa era andato storto. E pensare che il neurochirurgo che mi operò era un luminare. Quel 2 dicembre forse ebbe una giornata negativa. Ebbi paura di non riuscire più a camminare. Facevo fisioterapia e quando provavo a scendere con la sinistra, cadevo per terra. Non trovai il conforto di nessuno, fu un periodo terribile. Il Francesco che sognava di fare il calciatore non esisteva più”. Si era operato per non rischiare di saltare Euro 2004, finì per perdere tutto. “Tante volte ci penso al mondiale del 2006. A quello che sarebbe potuto essere. La vita è fatta di momenti: Grosso giocò sulla mia fascia, ogni tanto la mia mente ci torna…”.
Rientrò, ormai usurato. Sei presenze, poi due esperienze brevi, a Torino, dove aveva già giocato nel '99, poi a Livorno “e lì stavo tornando in forma ma mi ruppi il crociato. Dissi basta”.
Trent’anni e un sogno interrotto. Chiuse anche le linee di abbigliamento, una vita da rimodellare. Fugaci consolazioni mediatiche, flirt iniziati e conclusi, “in attesa ancora oggi di trovare l’amore vero. Perché sono lo stesso sognatore di quando avevo 18 anni. Vorrei un figlio e crescerlo con la persona che amo. Una mamma che lo crescesse come la mia ha fatto con me. Non parlo da una vita con mio padre, essere figli di genitori separati porta a questi problemi. Voglio essere certo che mio figlio non li debba vivere. Mi hanno sempre fatto passare per un cretino o per un superficiale. La frase che sento più spesso è ‘credevo che fossi così e invece sei…’. Credo nella famiglia e nell’essere persone libere. E quando guardo i bambini della mia academy, ritrovo la mia libertà. Quella originale”.
Jim Morrison scriveva: “Bimbo mi chiedi cos'è l'amore? Cresci e lo saprai. Bimbo mi chiedi cos'è la felicità? Rimani bimbo e lo vedrai”.
Una frase che potrebbe essere scritta all’ingresso dell’academy “Francesco Coco”.