Un sogno anarchico lungo 100 anni. Auguri Foggia, soffia insieme a Zeman
Il club di tutti. Da sempre, anzi da cento anni esatti. Foggia e il pallone, nati ufficialmente il 12 maggio del 1920. Foggia e la sua squadra, diabolica e paradisiaca. Satanelli oggi in fila nel purgatorio della serie D, distanziati socialmente dai grandi palcoscenici e cronologicamente dai tempi di Zeman, il condottiero che proprio oggi compie 73 anni. Due destini che si uniscono, legati ai tiri mancini di Beppe Signori e ai gradoni saliti insieme all’inizio degli anni ’90.
Il punto più alto di una storia iniziata nel 1920 ai piedi di un tribunale e troppo spesso tornata dentro quelle aule. Lo Sporting Club Foggia nacque - secondo la versione ufficiale - sotto il portone del vecchio foro, grazie alla passione di un gruppo di cittadini. Si tassarono per costruire uno stadio, misero il colonnello Carlo Gigliotti alla guida del club e scelsero le maglie rossonere. Gli stessi colori del reggimento dei cavalleggeri da lui guidato. Ma non fu quello il solo motivo. Contribuirono molto i fratelli Tiberini, metà milanesi, metà foggiani. E anarchici, come buona parte dei soci fondatori.
ANARCHIA E FERROVIA: L’ALBA DEL CALCIO A FOGGIA
Questa componente fu decisiva nella nascita del calcio organizzato. Via Galliani, zona del vecchio tribunale e prima sede del calcio foggiano, era anche il loro luogo di ritrovo. Locali attigui, bandiera rossonera. E così, anche per ringraziare quei soci che avevano aiutato a fondare il club, fu scelto il rossonero per vestire il calcio foggiano. Non diagonale, ma a strisce verticali. Maglia (QUI le foto della maglia celebrativa) disegnata dal pittore, e ferroviere, locale Alberto Testi.
Anarchici e ferrovieri, motore dei primi calci. Il treno tornerà spesso nella storia del club. Non fosse altro che per quei tifosi costretti per lavoro a fuggire da Foggia e spinti dalla fede a tornare allo Zaccheria ogni due settimane. Esodi e controesodi sui binari, leitmotiv di una squadra che nacque da un sogno anarchico e che il vero anarchico del calcio italiano portò ai suoi massimi livelli: Zdenek Zeman.
ZEMAN, L’ANARCHICO CHE GUIDÒ UN SOGNO
Per una coincidenza surreale, il boemo è nato lo stesso giorno di fondazione del club. Insieme hanno vissuto i giorni più felici. Quelli di Baiano- Rambaudi-Signori davanti. Quelli di uno Zaccheria urlante e stracolmo. Quelli di Casillo presidente e di un manipolo di sconosciuti affamati e cresciuti da un allenatore voglioso di stupire il mondo con metodi e moduli innovativi. Partite col pallottoliere, una gioia per i tifosi, un po’ meno per i difensori. Il pallone dentro a un luna park emozionale.
Lo chiamavano Zemanlandia, ne parlava il mondo intero. Persino Ralf Rangnick, candidato numero uno alla panchina del Milan, passava le estati nel ritiro del Foggia. Per studiare quell’allenatore che fumava e pensava, dirigeva e non parlava. Legami, coincidenze. Il Milan che verrà forse avrà il background del Foggia che fu. Inversione storica, perché il primo Foggia, quello dei fondatori, nasceva rossonero anche per ispirazione al primo Diavolo. Quello fondato da Kiplin, quello che scelse il rossonero. “Saranno maglie rossonere. Rosse perché saremo diavoli, nere perché dovremo far paura a tutti”, disse il fondatore del Milan.
LA NASCITA DEI SATANELLI
I ragazzi di Zeman, che prima di ogni partita riceveva una caramella propiziatoria dal signor Fernando Iannucci, spaventarono e divertirono il calcio italiano. Satanelli, più che diavoli. Un simbolo che apparve per la prima volta sulle maglie foggiane alla fine degli anni ’80, in un periodo di generale rivisitazione dei simboli. Quei diavoletti sovrapposti uscirono dalle mani di Savino Russo, grafico professionista.
Una notte – su impulso di un dirigente del club – disegnò i satanelli ispirandosi agli “scazzamurrill”, folletti del folklore meridionale. Rappresentarono l’esatta incarnazione di quei ragazzi venuti dal niente e pronti a dare battaglia ai grandi. Due volte noni e un dodicesimo posto, piazzamenti che non raccontano tre anni indimenticabili. Un laboratorio estetico in mezzo alla Capitanata, una gioielleria in cui tutti misero le mani. La diaspora del talento portò alla dispersione dell’utopia e poi alle retrocessioni.
UN AMORE FUORI CATEGORIA
Il Foggia non vide più la serie A, ma la sua gente non è mai cambiata. Allo Zaccheria la scintilla si accende sempre. Anche quest’anno in D. Migliaia di tifosi in casa e fuori. Erano 3mila anche l’anno scorso, a Verona, nella giornata sportivamente più amara. Il giorno della retrocessione in C, dopo un anno tribolato. Montagne russe, più steppose rispetto a quelle di Zemanlandia. Più aride dei tempi belli di Marino, De Zerbi e Stroppa, ma ugualmente appassionate. Perché in città, nel bar del “professore” o per le vie dei mercati, da sempre ci si saluta con una frase. Quattro lettere: “Za Fo”. Vuol dire “forza Foggia”. Spezzato, come il cuore di chi ha amato e sofferto. Semplice, come la gente di una città che s’illumina con 4 semplici lettere.
Google Privacy