Ezio Vendrame è morto. Risparmiategli la retorica
Amava così tanto il dribbling che il più riuscito se lo era fatto da solo. Ezio Vendrame non amava mezze misure né disciplina. Difficile potesse essere altrimenti per un bambino cresciuto in un orfanotrofio friulano negli anni ’50 nonostante entrambi i genitori fossero vivi. Chi ha scritto di lui ha riversato tutta la retorica tipica di chi non capisce la diversità. Rendendolo uno stereotipo, suo malgrado. Icona involontaria dello stucchevole romanticismo abbinato al pallone, manifesto di un’onnipotenza occasionale, la debolezza del vizio elevata a virtù anarchica. Vendrame non avrebbe letto una riga di certi epitaffi che la stampa gli ha riservato già in vita. Si sarebbe annoiato a leggere quell’album di aneddoti masticato e ingiallito dal tempo.
Intollerante. A regole e preti
Chissà quante volte nella sua Casarsa – città che conserva quel che rimane di Pasolini – avrà maledetto il tempo. L’impossibilità di fare niente per fermarlo o magari per riportarlo indietro. Chissà se in quelle giornate passate a scrivere versi, poco assistito dallo stesso talento che aveva nei piedi, ha ripensato a come poteva essere tutto diverso. Anche ai suoi tempi, quando era capace di dribblare intere difese, portiere compreso e poi non calciare, facendosi rimontare da quell’uomo solo. “Perché ognuno merita una seconda possibilità”, disse dopo una di quelle partite. Magari era anche un grido a se stesso. Ezio Vendrame era intollerante. Troppo per essere inquadrato in una squadra o in un gioco fatto di regole. Ne aveva subite fin troppe da quei preti che lo avevano cresciuto senza capirlo. Troppo bastone per un’illusionista della carota. Ha definito la sua una “vita in fuorigioco” e forse ha minimizzato. Già la definizione di offside prevede una presa di coscienza del regolamento. Non gli è mai interessato.
Quel discorso a Vicenza e l'allergia alle gerarchie
Ha sempre preferito disturbare, fin da quando si mise a calciare i rigori provando a fare palo destro-palo sinistro-gol. Non ci riuscì mai in partita e quello resta forse il suo rimpianto più grande. Aveva tanti peli sulla faccia e in testa, nessuno sulla lingua. Come quel giorno a Vicenza, all’inizio degli anni ’70, all’alba della sua carriera. Già idolo dei tifosi, già così fuori dagli schemi, si rivolse così a quella folla adorante: “Innanzi tutto vi ringrazio per tutto l'affetto che mi dimostrate, ma mi sembrate un po' fuori di testa: io so soltanto tirare calci ad un pallone. Chissà quante cose voi sapete fare meglio di me. Non sono un chirurgo che salva vite umane e nemmeno un operaio che per arrivare alla fine del mese si deve fare un culo grande così! Io sono un fortunato ed è per questo che non vi capisco. Che cosa saranno mai queste partite di calcio! Inventatevi delle alternative domenicali. Andate a vedervi un bel film, leggetevi un libro, oppure restate a casa e fatevi una bella scopata! Cazzo!, non possiamo vivere di solo calcio!".
Schiavo del suo talento e di quella sfera “così piccola per racchiudere tutto”. Non gli bastava e da giocattolo preferito diventò solo uno strumento per ottenere altro. Non ha mai nascosto di aver continuato a “giocare” solo per soldi. Quelle virgolette indicano la mancanza di divertimento che avvertiva in un mondo gerarchico. Quel bambino a cui era stata negata qualsiasi gioia riemergeva sempre. Rialzava la testa nelle notti passate con donne diverse, non sempre gratis. Godeva nell’essere estromesso e quando al Napoli il suo allenatore Vinicio lo spedì in tribuna, gli regalò il titolo per uno dei suoi libri. “Se mi mandi in tribuna, godo”. Forse mentiva, ma che importa. Non poteva essere mica come il suo vecchio compagno di convitto Dino Zoff. Erano all’Udinese insieme. Difficile immaginare due figure così diverse. Zoff portò sempre nel portafoglio un articolo che ricordava una goleada presa contro il Foggia. Un souvenir dei tempi cattivi, per non volare mai alto. Ezio nel portafoglio avrebbe tenuto qualsiasi cosa il meno possibile.
Attaccante per incapacità di difendersi
Ma guai a considerarlo un superficiale. Non lo era. Era semplicemente un’anima irrequieta. Per questo amava così tanto Piero Ciampi, cantore di Livorno e di altri tempi. “Tutto quello che so l’ho imparato da lui”, diceva. Sensibile e tormentato, votato all’attacco anche per l’incapacità di potersi difendere. Ezio Vendrame ha vestito le maglie di Udinese, Spal, Vicenza, Napoli e Padova. Lo ha fatto soprattutto per denaro, rifiutando scorciatoie. Come quella volta che col suo Padova si trovò di fronte a un bivio: accettare o meno una combine proposta dall’Udinese per lasciare strada ai friulani. Disse prima di sì, poi andò in campo e segnò due gol. Uno direttamente da calcio d’angolo. Il Padova vinse 3-2, lui disse addio ai 7 milioni promessi. Finì a fare l’allenatore di ragazzini, litigando continuamente con i genitori. “Il mio sogno è allenare una squadra di orfani”, fu il suo epitaffio alla panchina.
Ci siamo cascati di nuovo. A raccontare pezzi di un puzzle illogico. Di una vita passata a maledire e a maledirsi. “Quanto pesa il dolore sulle piccole spalle di un’anima?”, si chiese in una poesia. Non spera di trovarla in un aldilà in cui non ha mai creduto. Se n’è andato, senza coronavirus, il 4 aprile del 2020 a Treviso. Poco lontano dalla sua Casarsa. Un luogo in cui – diceva lui – nessuno si curava più di lui. “Qui si sono dimenticati di Pasolini. Potevano ricordarsi di me?”.