Il primo gol e le parole di Mou, Edoardo Bove si racconta: "Emozione sì, ma volevo vincere"
Semplicità, purezza, umiltà. Termini che vengono accostati ai giovani calciatori troppo spesso solo per definizione. Ma nel caso di Edoardo Bove parlare di “un ragazzo come gli altri” è esattamente la descrizione migliore che si possa fare. Una gioventù consapevole e rispettosa ma ben focalizzata sugli obiettivi professionali. In esclusiva ai microfoni di gianlucadimarzio.com ha raccontato il momento magico che sta vivendo con la Roma. Dal primo gol in Serie A al rapporto con José Mourinho, partendo dagli inizi come tennista prima e giovane calciatore poi.
Contro l’Hellas Verona due settimane fa ha segnato il primo gol in Serie A. Quello del pareggio, in una partita pazza, indirizzata e decisa dalla meglio gioventù giallorossa: Zalewski, Volpato e appunto Edoardo Bove: “Sono state due settimane importanti. Ovviamente da ricordare, ma anche normali. All’inizio l’emozione istantanea del primo gol rimane per uno due giorni, poi passa e la vivi tranquillamente come ogni settimana di allenamento. Non mi ha spostato più di tanto, poi Mourinho ti aiuta a focalizzarti molto su quello che c’è da fare, non puoi permetterti un rilassamento dovuto ad una buona prestazione o un gol. Devi metterti in riga, perché poi il calcio è così: un giorno sei acclamato quello successivo è già tutto dimenticato. Devi rimanere sempre sul pezzo”.
Un focus sugli obiettivi dimostrato anche nella esultanza composta e semplice. Molto apprezzata dai tifosi della Roma: “Guarda ti dico, il primo pensiero è stato tornare a centrocampo per fare un altro gol. Istintivamente mi è venuto di correre verso il centrocampo, riprendere velocemente il gioco e fare un altro gol. Nessun pensiero alla prima volta, quasi nessuna emozione. Lì per lì, ovviamente. L’unica cosa che ho fatto è stato guardare verso la tribuna dove stavano i miei genitori. Li ho cercati con lo sguardo, ma non sono riuscito a vederli. Credo però che loro mi abbiano visto”. La risata scatta automatica.
Il rapporto con i genitori, un valore importante e non retorico dimostrato a poche ore dall’emozione più forte della giovane carriera: “Come fatto in campo, poi nel post partita non ho festeggiato in chissà quale modo. Ho preferito focalizzarmi sulla mia famiglia. Sono stato con i miei genitori sia la sera stessa che il giorno dopo. Secondo me era un momento da condividere e celebrare con loro per i tanti sacrifici fatti negli anni”.
Nel racconto intimo della propria famiglia, Bove inizia una modalità di espressione che sarà la costante della chiacchierata. Spiegare meglio, per esprimere bene, senza fraintendimenti il proprio pensiero. Un bellissimo requiem al preconfezionato: “Ti faccio un esempio, che vale per tutti i ragazzi. Da quando hai 8-9-10 anni i genitori vivono e si organizzano in funzione di una tua passione, di un tuo divertimento. Ti accompagnano ai cancelli di Trigoria, aspettano fuori, che sia inverno o estate, caldo o freddo, senza vedere cosa fai lì dentro. Poi dopo un paio d’ore ti riprendono esattamente come ti hanno lasciato. Tutto questo per anni e anni. Beh, dopo il primo gol in Serie A, glielo dovevo. Perché tutti i genitori di qualsiasi ragazzo delle giovanili devono credere nei propri figli, non sapendo se realmente succederà qualcosa. Ed è un amore che va al di là di ogni cosa”.
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Forse non è amore, ma che Mourinho apprezzi molto le qualità di Bove è sotto gli occhi di tutti. Tra scelte e dichiarazioni, il portoghese non ha mai fatto sentire “meno” degli altri centrocampisti il giovane 19enne: “Dopo il gol non mi ha detto nulla di particolare. Sembra strano, ma per me è una cosa molto bella perché significa che lui quel momento non lo ha visto come un evento eccezionale. Non c’era un motivo particolare per dirmi che ero stato bravo. In allenamento ci chiama spesso bambini per scherzare un po’, ma poi davvero ci tratta esattamente come i giocatori più esperti, tanto nei momenti negativi quanto in quelli positivi. Ti faccio un esempio, - appunto - prendi il capitano Pellegrini. Un suo gol o una sua grande prestazione viene vista come la normalità, ecco per me o per Nicola (Zalewski, ndr) è la stessa cosa. Certo, è più difficile il dopo che il momento esatto. Perché devi dimostrare che non è stato un caso, un evento eccezionale”.
Come giocare male, esattamente come i grandi: “Mi ricordo che dopo la partita con l’Inter (Bove è entrato al 60’ sullo 0-3, ndr) il mister mi ha preso da parte e mi ha detto: «so che era una situazione difficile, ma non mi è piaciuto per niente come sei entrato». Lui è diretto, non ha peli sulla lingua. Ti dice le cose in faccia e ti fa capire quello che vuole da te. Se fai parte o no del progetto, se devi cercarti un’altra squadra, se stai facendo bene o se devi fare meglio. E questo lo apprezziamo molto”.
In tutto lo spogliatoio. Parola di Bove. Un ragazzo entrato in punta di piedi ma già parte integrante di un gruppo che a detta dei protagonisti è un blocco unico: “Ovviamente noi giovani stiamo spesso insieme. Scherzo molto con Zaniolo che è il mio vicino di spogliatoio. E poi Tammy, lo prendo spesso in giro per il suo italiano. E lui ovviamente non me ne fa passare una in inglese, mi corregge sempre. Ma tutto il gruppo è molto unito”.
Muri, spogliatoi, ambienti vissuti per anni, “se conto le ore passate qui o a casa credo si equivalgano”. La prima volta a Trigoria fu un provino piuttosto particolare: “E’ forse l’unica partita che mio padre non ha visto. Per dirti, è venuto fino in Qatar nel 2017 per vedere un torneo giovanile. Ma quel giorno, a Trigoria, non c’era. Vennero mia madre e mia nonna, per quella che io credevo fosse una partita come le altre. Non certo un provino. E non ci dissero nulla sull’esito, visto che ci sarebbe dovuta essere una seconda partita per il giudizio finale. Peccato che noi non lo sapessimo e il giorno della prova finale non ci andai. Ero al mare”. Occasione persa? Neanche per sogno: “Qualche settimana dopo il caso ha voluto che ci fosse il centro estivo per bambini a Trigoria. Neanche il tempo di compilare il modulo di adesione con tutti i dati che arriva Bruno Conti e mi dice «e tu che ci fai qui che ti abbiamo già preso? Tra un mese inizia la stagione».
Bove aveva 10 anni, ma ancora non sapeva bene cosa scegliere tra tennis e calcio. “Praticavo entrambi e l’ho fatto per tre anni. Ma arrivato ad un certo punto devi fare una scelta. Il tennis mi ha aiutato molto nel percorso di crescita come calciatore, soprattutto dal punto di vista psicologico. È uno sport singolo, sei tu contro il tuo avversario. Non c’è compagno, non c’è qualcuno su cui scaricare la colpa di un errore. I problemi te li devi risolvere da solo”.
Passione e amore che hanno un nome e un cognome: “Roger Federer, per me lui è il tennis”. Su questo non ha dubbi, sul suo successo con una racchetta in mano molto meno: “Non ero così forte tecnicamente, diciamo che ero il classico pallettaro. Correvo dovunque, rimandavo la palla di là e gli altri sbagliavano. Sai chi era già forte? Il mio amico Flavio Cobolli. Per tre anni abbiamo giocato insieme alla Roma e giocato contro a tennis. Stesso percorso, poi ognuno ha fatto la sua scelta”. Vincente. Come un altro 2002, che lavora per arrivare al top: “Non sono mai sceso in campo contro Musetti, ma abbiamo giocato alcuni tornei insieme. Io però uscivo prima (ammette ridendo, ndr). Già a 12 anni si vedeva fosse di un’altra categoria con quel rovescio ad una mano”.
Calciatore, tennista ma anche appassionato di motociclismo: “Con Fabio Di Giannantonio siamo molto amici. Oltre a condividere lo stesso agente Diego Tavano, siamo vicini di casa e quando possiamo ci frequentiamo anche fuori. E poi lui è simpaticissimo e un grande tifoso della Roma. Prima di conoscerlo di moto non sapevo nulla, adesso appena posso non mi perdo una sua gara. È strano guardare un amico correre a quei livelli, stai attaccato alla tv dicendo soltanto «ora cade, vai piano, non cadere». È davvero emozionante, non vedo l’ora di poter andare ad una sua gara e vivere il box e il paddock”.
Per adesso Bove vive e gioca su quei campi calpestati da Totti e De Rossi: “Come posso descrivere a parole cosa sono stati? È impossibile. Purtroppo non ho avuto la fortuna di giocare assieme a due idoli come loro. Sono un punto di riferimento, per me come per ogni tifoso della Roma. Ma non un’aspirazione, perché davvero non credo si possa raggiungere un tipo di amore, di acclamazione come ce l’hanno avuto Totti o De Rossi. Si può arrivare, ma in modo diverso. Ma il percorso che hanno fatto è quello che sognano tutti”.
Idoli magari no, ma esempi nello spogliatoio ora hanno nomi diversi: “Pellegrini mi consiglia molto, perché sa cosa si prova a crescere qui dentro e poi giochiamo nello stesso ruolo. Ma anche Cristante e Mancini, si prodigano molto. Sono tre leader. Personalmente non mi ispiro a qualcuno in particolare, cerco di rubare con gli occhi e prendere qualcosa da tutti per diventare la versione migliore possibile di me stesso”. Umiltà e consapevolezza, senza formalismi inutili. Gli stessi utilizzati a domanda diretta sugli obiettivi stagionali della Roma. Champions sì o Champions no? “Ti posso dire una cosa? Il mister ci dice le stesse identiche cose che va a dire in conferenza stampa. Prima le comunica a noi, per rispetto. E poi va davanti alle telecamere. E l’obiettivo di quest’anno è vincere una partita per volta, senza porsi obiettivi. Poi, che giocare la Champions con la Roma è il sogno di ogni bambino che cresce a Trigoria… ma serve che te lo dica?”.