A pranzo con Hubner: tra mito e realtà, sulla pista del Bisonte
“Vuoi una sigaretta?”. Dario Hubner non poteva presentarsi diversamente. Più che un personaggio da onorare non ha niente da nascondere, come ai tempi in cui segnava a valanga. Siamo a Passarera (CR), nel suo ristorante di fiducia: giubbotto chiuso fino al collo, Marlboro rossa tra i denti, gli occhi che guardano lontano. “Mi fa piacere che sei da solo. Non mi piacciono le interviste formali, con la troupe e tutto il resto. Facciamo due chiacchiere e poi mettiamoci a tavola”.
Ha rischiato di rovinare il debutto nerazzurro di Ronaldo, è l’unico insieme a Igor Protti ad aver vinto la classifica dei marcatori dalla C1 alla A, e qui ha diviso il primato con Trezeguet Campione d’Europa. Eppure, bastano davvero quelle due chiacchiere per quasi dimenticarsene. “A 16 anni facevo il fabbro”, comincia a raccontarci Hubner, 52 anni ad aprile, in esclusiva per Gianlucadimarzio.com. “Quello sì che era un lavoro vero. Poi ho fatto il calciatore e per me era semplicemente la cosa che mi piaceva fare. Mi divertivo e mi sentivo fortunato: non ho mai dimenticato le cose semplici che in tanti hanno perso di vista durante la carriera”.
Ancora oggi. “Sono in pensione, curo un po’ il giardino, aspetto il weekend per guardare le partite”. Solito animale da calcio. “Cerco una panchina: dall’Eccellenza in su sarei felice. E poi gioco ancora a calcetto con gli amatori, in porta”. Prego? “Guarda che sono fortissimo!”, scherza ma non troppo Dario. “Anche quand’ero al Brescia e al Piacenza, in partitella facevo il portiere. È un ruolo che mi è sempre piaciuto”.
Curioso, il fascino dell’attaccante per quell’estremo rivale. Battuto 300 e più volte in carriera, a partire dal 1987. “L’anno in cui lasciai la mia Trieste per la Pievigina, campionato Interregionale. Poi il direttore sportivo che mi aveva voluto passò alla Pergocrema in C2. Mi portò con sé e lì iniziò la mia scalata”. Prima il Fano, con Guidolin in panchina, poi il Cesena in Serie B. Dove Hubner diventa Tatanka. “È stata una lenta evoluzione”, sorride Dario. “A Crema mi chiamavano l’ariete, prima ancora il Mulo di Trieste. Sono stati i tifosi bianconeri a chiamarmi per primi Bisonte. Penso che sia un soprannome azzeccato, un animale a cui assomigliavo nel modo di correre. Potente e ingobbito”.
E forte sulle lunghe distanze: in cinque stagioni in Romagna, Hubner segna 83 gol. Ma a 30 anni è ancora lì, con la squadra che sta per retrocedere in C1. “Ho solo un rimpianto nella mia carriera - (ma su quello tornerà dopo, ndr) - Se poi potevo fare qualcosina in più, allora sì. Forse avrei dovuto tirarmela un po’, la mia semplicità mi ha condizionato”. Sul ‘bomber di provincia’, che fuma e beve prima delle partite, cominciano a raccontarsene anche troppe. “A me bastava stare bene, dove mi apprezzavano e vicino a casa. Però sono contento, tutte le piazze in cui ho giocato, da Crema a Mantova, mi ricordano con grande affetto. E questo per un giocatore è il massimo”.
Eppure, il capitolo più importante della carriera di Hubner, in quel 1997, doveva ancora arrivare. “Già in C erano campionati duri. Ma quello di Serie B era il calcio vero, professionistico in tutti i sensi”. In quelli anni ci sono passati anche Batistuta, Bierhoff, Montella. Un purgatorio stellato. “Perciò quando mi chiamò il Brescia neopromosso in Serie A era una chance da non perdere”.
L'esordio in campionato di Hubner coincide con quello di Ronaldo, a San Siro contro l’Inter il 31 agosto 1997. Pressioni? Zero assoluto. “La notte prima della partita, fino alle quattro di mattina ero attaccato al televisore a seguire l’incidente di Lady Diana”. Tristi notizie da Pont de l’Alma, aspettando il Fenomeno. “Se era un modo per stemperare la tensione? Io il calcio l’ho sempre vissuto con tranquillità, qualunque fosse la partita. Quando c’erano i gran premi di Formula 1, altra mia grande passione, se li facevano alle sei di mattina mica me li perdevo”.
Sregolatezza solo apparente. “Dormire poco o mangiare tre chili di carne al giorno (guarda che ordino la bistecca anche dopo eh!) non è mai stato un problema. In campo davo sempre tutto e quello bastava, a me e ai miei compagni. Quindi quella notte di fine agosto era un ritiro come tutti gli altri. Ero felice e lo sono rimasto fino all’ingresso in campo: 85mila in uno stadio non li avevo mai visti in vita mia. Uno stimolo spettacolare, non una fonte di difficoltà”. E quella che doveva essere la giornata di Ronaldo stava per diventare quella di Hubner: al 73’ il Bisonte si gira, fulmina Pagliuca e gela il Meazza. “Poi si è svegliato Recoba e vabbé, l’Inter vinse 2-1. Ma la soddisfazione resta, ero contento perché sapevo di aver finalizzato il lavoro dei miei compagni. Devo sempre ringraziare loro se ho segnato così tanti gol”.
Era un attaccante così Dario, altruista vero. Ma era in tutto lo spogliatoio che si respirava un altro mondo. “Una volta eravamo undici operai che lavoravano insieme per l’industria squadra. Non solo in campo, ma soprattutto al di fuori: un gruppo di amici, prima che colleghi. Oggi invece mi sembra spesso di vedere undici industrie”. C’è amarezza nella voce di Hubner. “In questo senso i social non aiutano, tanti calciatori hanno perso di vista il piacere di giocare”. Chissà se Tatanka si sarebbe abituato. “Mi gestiscono una pagina Instagram ma io ci capisco poco di queste cose. Già allora ho fatto fatica con le telecamere…”.
Senza paura di nascondere qualche vizio. “Ero genuino ma anche stupido: quando fumavo era alla luce del sole. In ritiro il mio beauty era pieno di accendini dei compagni: li compravano, fumavano dal sabato mattina alla domenica prima della partita e poi basta. Non lo facevano sapere nemmeno alle mogli, volevano salvare la loro immagine. Ma di cosa bisognava vergognarsi?”. Hubner però faceva di più. “Certo, prima di scendere in campo nel sottopassaggio fumavo sempre. Giusto qualche tiro eh, mica tutta la sigaretta. Anche tra primo e secondo tempo, mi stemperava e mi rilassava. Ognuno aveva il suo: chi si faceva i massaggi, chi beveva sali minerali, io andavo in bagno e accendevo. Gli allenatori si lamentavano? No, sapevano che ero fatto così”.
‘Il più grande giocatore del paese, senza grappa e sigarette’, disse di lui Gino Corioni, storico presidente del Brescia. “Ma no dai, non credo che il fumo mi abbia condizionato. Se uno fa sport dalla mattina alla sera, i polmoni fanno presto a liberarsi”. Saggezza spicciola. Un fondo di verità dietro le voci comunque c’è. “Certo, ma poi la gente esagera. Anche il grappino mi piace, ma mica arrivavo ubriaco alle partite. Lo dico sempre: da calciatori si può berne un paio a settimana e poi andare a dormire presto, svegliarsi alle 7 e portare i bambini all’asilo”. Molto più Stachanov che ‘compagno di sbronze'. “Poi ci sono quelli che salvano le apparenze e si fanno le nottate in discoteca. Tutti mi dicono che non sono stato un gran professionista, ma forse lo sono stato molto più di tanti altri”.
Eppure, Hubner è entrato con inaspettata potenza nell’immaginario collettivo. “A 20 anni giocavo in Prima Categoria e a 30 mi sono ritrovato in Serie A. E senza compromettere il mio modo di essere. Per questo è facile identificarsi in quel ragazzo che ero io”. Uno come tutti: solo il diploma di scuola media, un pallone e un sogno. Dario però ce l'ha fatta. “Pensando alla mia carriera, un giovane che gioca nei dilettanti può sperare di arrivare in Serie A anche lui. Sono in tanti quelli che devono partire dal basso: senza un piccolo punto di riferimento, avrebbero già finito di crescere ancora prima di cominciare”.
E non solo arrivarci, in massima serie. Da quel pomeriggio a San Siro, Hubner ha continuato a fare storia. “Quell’anno siamo retrocessi in modo stupido, poi nel 2000 siamo tornati in Serie A e…”. Bomba di mercato: i giornali dicono Baggio al Brescia. “In spogliatoio pensavamo che fosse uno dei soliti scherzi del presidente. Invece dopo tre giorni Roberto arrivò davvero. È stata la seconda volta in cui mi sono emozionato da calciatore”. La prima? “A Cesena, quando è venuto ad allenarci Azeglio Vicini: nemmeno tre anni prima era sulla panchina della Nazionale a Italia ’90, non ci potevo credere”.
In Romagna solo una breve parentesi, per l’ex ct delle 'notti magiche'. “Ma ho avuto tanti allenatori bravissimi. La tattica l’ho imparata da Guidolin, per esempio. Da Vicini e Mazzone il carisma, Cagni era uno che non mollava mai”. Hubner non perde il politically correct. “L’allenatore perfetto non esiste, ho cercato di prendere qualcosina da tutti. Ma devo essere particolarmente grato a Novellino, che mi rigenerò a Piacenza”. Perché con Baggio alla fine le cose non andarono a meraviglia, nonostante la salvezza e i 27 gol complessivi dei due '67 messi a segno nel 2000/01. “Io e Roberto ci volevamo bene, ma tatticamente avevamo idee troppo diverse. Ero la tipica punta di profondità mentre lui ne voleva una statica”. Il Brescia allora puntò sul giovane Toni e per Dario, a 34 anni, la sfida era rischiosa.
“Dopo quattro stagioni (e 85 reti, ndr) il Rigamonti era diventato casa mia. Ma a Piacenza ho trovato una squadra che giocava per me, di rimessa. Non mi sentivo a mio agio: di più”. L’altra storia del 5 maggio 2002 è Hubner capocannoniere con 24 gol: nessuno ci era mai riuscito a quell’età, ci vorrà ancora Luca Toni per spodestarlo nel 2015. “Da Dolcetti a Pirlo, da Stroppa a Poggi, ovunque abbia giocato ho avuto grandi giocatori che mi mettevano in porta”. Continua la lezione di umiltà. “Il più importante? Facile dire l’ultimo di quella stagione: un 3-0 al Verona che per noi voleva dire salvezza acquisita, il coronamento di un anno di lavoro. Quel che si dice è vero, le mie cinque salvezze valgono altrettanti scudetti per me. L’unica cosa che mi è mancata è assaggiare l’Azzurro”.
Eccoci al rimpianto. “Mi sarebbe bastata un’amichevole. Mica i Mondiali, per quelli non chiamarono nemmeno Roby. Sapevo che davanti a me c’erano tanti attaccanti più bravi. Però una presenza ci avrei tenuto davvero a farla: cosa sarebbe costato a Trapattoni farmi giocare un minuto?”. Ma quel 2002, un riconoscimento alla carriera di Hubner lo riserva comunque. “La tournée estiva con il Milan per me è stata un sogno. Mi ricordo alla perfezione ciascuno di quei 12 giorni negli Stati Uniti: la mia stanza fumatori in albergo, le uscite con Zauli, Tonetto e Ambrosini, che era con me già a Cesena. E poi lo shopping americano di Costacurta con la Colombari: quanto avevano speso!”.
Ancelotti chiamò l’attaccante di Muggia in prova, da quarto di reparto, per i rossoneri che avrebbero vinto la Champions League. Non arrivò la conferma. “Nessun rammarico, ho visto con i miei occhi quanto quel gruppo fosse di un altro pianeta. Ma che mi sia bruciato le mie carte perché bevevo birra e fumavo in spogliatoio, quella è un’altra bufala. In prova al Milan, solo un deficiente lo farebbe”. Dario alza la voce. “Dicono che questa storia ‘mi ha fatto fare i like’, ma più che i like mi ha fatto girare le scatole. Ho esposto denuncia e adesso c’è un procedimento aperto”.
Non è l’unica fake news che ha colpito il Bisonte, e allora ci abbiamo provato noi a fare un po’ di debunking (guarda il video sopra). Ma la leggenda che ingoia la realtà fa sbarcare Hubner anche su Youtube. “Due volte. Qualche tempo fa avevo fatto un simpatico video con i Toromeccanica. Poi l’anno scorso mi ha contattato lo staff di Calcutta”. Cantautore in gran voga, pronto a una dedica tutta speciale: un brano del suo ultimo album si chiamerà come l'attaccante. “E quanto lo ripete nel ritornello! Ci è voluto mio figlio per farmi capire che è un messaggio positivo: -Dice che quando giocavi hai sempre pensato alla famiglia invece che ai soldi e alla fama, è una bella canzone-. Quindi va bene, grazie. Ma le prime volte che l’ho ascoltata non riuscivo a coglierla bene. La musica di oggi non è la mia”.
Ovvero? “Dei Queen c’ho tutto, sono un loro super fan. Da ragazzo ho sempre voluto andare a un concerto di Freddie Mercury, sul più bello che ho avuto i soldi per permettermelo purtroppo è morto. Poi sono andato a Londra in pellegrinaggio, a trovare i suoi luoghi”. Lui e Rummenigge, i miti dell'infanzia di Dario. “Se devo dire due canzoni della mia vita, Somebody to love e Guide me home. Ascoltavo quelle mentre andavo in ospedale, quando sono nati i miei due figli”.
E da quello più giovane, Hubner ci confessa che una passione da millennial l’ha presa. “Eh alla playstation ci gioco sì. Call of Duty e FIFA. Quanto mi fa incazzare quel gioco: i primi due mesi è bello, poi tutti comprano i FIFA points e ti ritrovi contro squadroni allucinanti. Ma ti pare normale spendere centinaia di euro dietro a un gioco? È bello potenziare la squadra con le partite, partendo da zero”. Il gamer Hubner è come il calciatore. “Ne avrò fatte tremila, ma ora ho un undici che andrebbe in Champions”, ci dice fiero. “Ma comprarsi i fenomeni è troppo facile. Se capisco di più i 100 milioni spesi per Ronaldo? Certo, quelli sono una cifra enorme ma anche un investimento vero: tante volte si esagera, ma sono le leggi di mercato. E in questo caso la Juve ci guadagnerà, come ci guadagnò l’Inter strapagando il Fenomeno”.
Si ritorna al calcio di oggi, quello giocato. “Non mi rivedo in nessuno, io sono Hubner, con la mia carriera, e gli altri sono gli altri. Ma mi piace molto Belotti, grande grinta e voglia di migliorare sempre. Piatek? Un ottimo attaccante, è uno che non sbaglia e ha trovato la squadra che lo mette in condizione di far gol. Al Milan come al Genoa”. Sempre il gruppo prima del singolo, per Hubner. “Anche il Brescia, sta andando forte perché è un gruppo giovane e affiatato. L’ho notato subito quell’unica volta in cui quest’anno sono andato al Rigamonti. L’amicizia in spogliatoio ormai è un valore raro e in campo si traduce in 4-5 punti in più all’anno: in questo senso la squadra di Corini ricorda la mia”. Tonali alla Pirlo e Donnarumma alla Hubner? “21 gol sono tanti, il ragazzo sta dimostrando di valere. Ma ripeto, vuol dire che innanzitutto funzionano i rifornimenti”.
Ormai siamo in pieno pranzo: per Dario la solita bistecca, un rosso e le chiacchiere che scivolano via spontanee. “Io nella mia vita bevo acqua, un po’ di vino e ogni tanto la grappa. Nessun miscuglio. Non digerisco i drink, li odio”. Hubner non molla il mondo che l’ha fatto crescere. “Mi piacciono i sapori secchi, genuini. Così come i momenti sociali: cosa sono il long island e l’apericena? Esistono il rum e la vodka, l’aperitivo e la cena. Meglio una cosa sola ma buona. Anzi, adesso usciamo che vorrei fumare”. Si accende un paio di Marlboro, alla sua destra il proverbiale grappino. “Di solito a pranzo no, ma oggi è un’occasione dai”.
Chissà se è anche per quello, che qualcuno lo riconosce e gli chiede un autografo mentre lasciamo il ristorante. “Quando non sono invadenti, fa sempre piacere regalare un sorriso”. L’ennesimo di una carriera tra le gente e con la gente. Saliamo in macchina, Hubner mette in moto, parte Don’t stop me now. Una giornata tipo, sulla pista del Bisonte.
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