La resilienza di Cicinho: “Alla Roma ho toccato il fondo per salvarmi”

Giocare contro la vita e rischiare di perdere. Per quasi vent’anni Cícero João de Cézare, al secolo Cicinho, ha lottato contro se stesso: “Sentivo un vuoto dentro, quando non giocavo ero depresso e mi facevo del male”. L’ex terzino brasiliano ha iniziato a combattere contro l’alcol a 13 anni, nelle giovanili del Botafogo.

Ha iniziato con la birra perché era la più economica, da lì non si è più fermato fino ai 30 anni, quando a Roma ha capito di aver toccato il fondo: “All’inizio ero felice, poi però ho perso il desiderio di giocare. Il problema ero io. Non stavo più bene con me stesso - racconta Cicinho a Gianlucadimarzio.com - il calcio era sempre stato la mia vita, c’era qualcosa che non andava. Dovevo cambiare, altrimenti sarei andato incontro alla morte”.

RIMPIANTI

La luce l’ha rivista sempre nella Capitale, grazie al matrimonio nel 2012 con Marry De Andrade: “È stato uno strumento per conoscere Dio”. Cicinho si era avvicinato alla fede già da piccolo, come chierichetto nella chiesa del suo barrio a Pradópolis, nello stato di San Paolo. Da qui il soprannome di ‘Reverendo’ che l’ha accompagnato in una carriera in cui, nonostante gli eccessi e due gravi infortuni al ginocchio, è arrivato a giocare nel 2005 coi Galácticos del Real Madrid e vincere nella stessa estate una Confederations Cup con il Brasile al posto dell’idolo Cafù: “Se non mi fossi abbandonato all’alcol, oggi forse starei ancora giocando. È un errore che non rifarei”.

Ritiratosi nel 2018, alla soglia dei quarant’anni ha dedicato il suo presente ad aiutare il prossimo: “Ho aperto un centro di formazione per giovani calciatori e atlete di ginnastica artistica, lavoriamo soprattutto sulla loro testa”. In Brasile, con tanto di Bibbia in mano, capita anche di vederlo predicare ai giovani sugli autobus: “Tutti noi abbiamo un vuoto che solo Dio può riempire: non c’è denaro, lavoro o famiglia che tenga”.

GIOIE

Terzino di spinta dal grande passo, forte sui cross, Cicinho dopo gli esordi con Botafogo e Atlético Mineiro si è consacrato al San Paolo vincendo da titolare, tra il 2003 e il 2005, il campionato Paulista, la Libertadores e l’Intercontinentale. Il trofeo cui è rimasto più legato: “Ho avuto la fortuna di vincere con il Real Madrid, la Roma e il Brasile, ma il momento migliore resta la vittoria a Tokyo per 1-0 contro il Liverpool. Conservo quell’immagine nel cuore”.

In poco tempo le sue caratteristiche hanno fatto pensare a molti di aver trovato il nuovo Cafù: “È stato il mio punto di riferimento, giocare insieme in Nazionale e sentirmi dire che lo ricordavo mi ha fatto sentire realizzato”. E del Pendolino verdeoro, ottenuta la cittadinanza italiana grazie al nonno abruzzese, sembrava dover diventare anche l’erede al Milan. Poi invece arrivò una chiamata da Madrid: “Parlai con Roberto Carlos e l’allenatore Vanderlei Luxemburgo, per me fu la scelta migliore”. D’altronde giocare con campioni così non capita tutti i giorni: “C’erano Ronaldo, Roberto Carlos, Raúl, Guti, Casillas, Zidane, Beckham, Robinho, Julio Baptista, Sergio Ramos…”. E Cassano: “Un pazzo, siamo diventati grandi amici”.

A Madrid vince la Liga, ma si rompe il crociato e diventa la terza scelta dietro Sergio Ramos e Salgado. Che, sentendosi in competizione, arrivò anche a togliergli il saluto: “Nello spogliatoio c’erano problemi: accade in tutte le grandi squadre e il Real Madrid non fa eccezione. Quando arrivai, Míchel Salgado giocava qui già da anni. Nel tempo abbiamo iniziato a vincere, c’era grande affetto verso me e gli altri brasiliani”.

ROMA

Anche l’esperienza a Roma, complice un secondo crack allo stesso ginocchio, si chiuderà con poche presenze e due sfortunati prestiti al San Paolo e al Villarreal. Le premesse erano state tutt’altre: 9 milioni di investimento e un’incredibile accoglienza a Fiumicino. “Prima di me era successo solo con Batistuta…”.

Con Spalletti, al primo anno, Cicinho era stato anche determinante per la vittoria in Coppa Italia: “La gioia dei tifosi non posso dimenticarla. Mi sorprende sia l’ultimo trofeo vinto perché hanno sempre avuto grandi squadre con Totti, De Rossi e molti altri. Mi sento privilegiato, ho inciso il mio nome nella storia della Roma”

DOLORI

Il calvario inizia con Ranieri prima e Luis Enrique poi: “Giocare in Italia era un sogno, il mio amico Doni mi chiamò insieme a Totti. La Roma non mi ha aiutato, ma perché non sapeva nulla del mio problema. Non ne parlavo con nessuno. Tornavo a casa da Trigoria e mi mettevo a bere birra e fumare. Mi allenavo sempre, però non avevo voglia di giocare. Guardavo la convocazione: se c’era il mio nome bene, altrimenti andava bene comunque”.

Fiche persa e ritrovata da Dio, Cicinho ha la forza per rialzarsi. E in Turchia nel 2014, con Roberto Carlos in panchina, diventa il migliore assistman del campionato: “Al Sivasspor son tornato a esprimere il mio calcio, ringrazio Dio per avermi dato la voglia di giocare ed essere di nuovo felice”. Una redenzione non senza un ultimo rimpianto: “Avrei voluto chiudere al San Paolo, il ginocchio non me lo ha permesso”. L’importante è aver battuto l’avversario più difficile.

di Gabriele Candelori

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