Autarchia e innovazione. C’era una volta il Piacenza tutto italiano. Cagni: “Un gruppo unico. E giocavamo come il Napoli di Sarri”

La fine della Guerra fredda, il Game boy, il karaoke nelle piazze, Beverly Hills 90210 alla tv. Polaroid degli anni 90. Chi li ha vissuti, sa già, chi non l’ha fatto ne avrà sentito l'eco. Un’era di passaggio, il crollo delle ideologie, la caduta dei muri. Un calcio al passato. Già, il calcio. Roby Baggio e i nostri sogni volati via in una notte californiana. Quel pallone scagliato verso la casa della famiglia Walsh. Lacrime e sguardo avanti. Cambiava tutto in quei giorni di rivoluzioni più o meno silenti. Ma mentre la pay tv iniziava a cambiare faccia al calcio, in mezzo alla pianura padana si ergeva un baluardo di resistenza. Un sogno autarchico fatto di necessità e virtù: il Piacenza tutto italiano guidato da Gigi Cagni. “Eravamo una cosa unica. Sono stati i sei anni che mi hanno formato di più. Abbiamo lasciato un segno”, racconta il tecnico bresciano al microfono di gianlucadimarzio.com.

Dal ‘90 al ‘96, dalla serie C alla A. Stessi compagni di viaggio, un solo condottiero. Un allenatore alla prima esperienza vera nel calcio professionistico. L’uomo perfetto per una favola controcorrente. “Allenavo la Centese e il direttore sportivo del Piacenza Giampiero Marchetti mi chiese un appuntamento. C’incontrammo in un ristorante del bresciano: due minuti dopo ero già il loro allenatore”. Tutto apparentemente semplice. Il Piacenza del presidente Garilli ignorava i curriculum e andava a caccia di identità. Uomini, al di là dei ruoli. Per questo un manipolo di sconosciuti superdotati nelle virtù morali divenne leggenda. “Vincemmo subito il campionato. Giocavamo il calcio del Napoli di Sarri 25 anni fa: 4-3-3, con esterni trasformati in centravanti. E incredibilmente passavo per difensivista”.

Etichette che il calcio attacca superficialmente: il Cagni giocatore pensava solo a difendere, le sue squadre saranno il suo specchio. Falso. “In tre in Italia giocavamo così: io, Zeman a Foggia e Marchioro alla Reggiana. Avevamo delle ali fortissime, come Turrini, dovevamo sfruttarle. Qualsiasi squilibro veniva compensato da dinamismo e intensità. In allenamento li massacravo”.

Innovazione e lavoro, fiducia reciproca, voglia di condividere un percorso. Più che una squadra, quel Piacenza sembrava un clan. Tutti capivano che stava passando un treno e i biglietti erano stati distribuiti. Destinazione capolinea. Parola che inizia con c e finisce con a. Più che una metafora, una missione. “Salimmo in A vincendo a Cosenza. Sul pullman per tornare in Emilia, Suppa mi chiese di dirgli subito se non lo ritenessi adatto alla A. Lo mandai a c…..”.

Classe operaia in Paradiso, nessuna deroga a stelle o esotismi. I miracoli di provincia avevano fatto rialzare l’Italia del dopoguerra. Quel Piacenza riportava le lancette indietro, senza smettere di guardare avanti. “Scegliemmo di affrontare il livello più alto quasi con le stesse persone. Il sistema funzionava, non aveva senso minarlo. Anche perché le possibilità economiche erano ridotte”. Risorse limitate e compattezza del gruppo. Una scelta necessaria e originale, la più ovvia per l’ingegner Garilli, deus ex machina di quell’utopia realizzata. “Il presidente era una persona speciale. Mi convocava in sede ogni sabato a mezzogiorno. Quel giorno sapevo che non avrei pranzato. Parlavamo per ore di qualsiasi argomento. Di calcio poco, perché lui non ne sapeva niente. Non guardava neanche le partite. Aveva paura di innamorarsi troppo. Era il garante e la coscienza di quell’avventura. S’intendeva di uomini. Le persone a cui dava fiducia, portavano i risultati”.

Italia del fare, provinciale e pratica, visionaria e concreta. Gente come Gianpietro Piovani, compaesano di Cagni e giocatore simbolo di quella scalata. “A San Siro sentimmo i passi del grande Milan nel tunnel. Gianpietro vide sbucare Gullit e Rijkaard e mi chiese dove volevamo andare. In realtà, non avevamo paura di nessuno”. Fu una stagione di sofferenze e scoperte, di illusioni sfumate fra le polemiche. “Ci davano tutti per retrocessi e invece ci giocammo tutto all’ultima giornata. Ci condannò la vittoria della Reggiana a San Siro contro un Milan di riserve. Il nostro pareggio a Parma fu inutile. Giocammo prima di loro e mi arrivò la notizia del loro vantaggio mentre stavo guidando. Detti un cazzotto al volante per la rabbia. Pochi minuti dopo Garilli mi chiamò, rassicurandomi: disse che saremmo tornati in A con i gol di quel ragazzo di ritorno dal prestito a Verona”.

Filippo Inzaghi, questo era il suo nome. “Un giocatore diverso da tutti. Per la prima volta vidi un procuratore al nostro campo d’allenamento: Tullio Tinti, una brava persona. Ci chiese il permesso di lavorare con i fratelli Inzaghi. Così iniziò la loro storia”.

Simone segna con la Primavera, le reti del giovane Pippo rispingono il Piacenza in A, Festa con cinque giornate d’anticipo, un record. La conferma di una nuova dimensione. “Veniva premiato il nostro modo di fare calcio. I movimenti degli attaccanti, sempre simili, da De Vitis a Caccia o Cornacchini. Facevano caterve di gol ed erano i primi difensori”. Intensità alta e spirito di gruppo. Dentro e fuori dal campo. “Spalavamo la neve e stavamo spesso fuori a cena insieme. Si era creato un legame autentico”. Anche con la città, che manifestava la sua passione con la proverbiale austerità del luogo. “Giravo in bici come tutti e la gente mi dava il buongiorno con riconoscenza”. Dichiarazione d’amore pudica e sincera nei confronti di un allenatore sempre più al centro dell’attenzione nazionale. “Il presidente Moratti voleva portarmi all’Inter, ma poi ci ripensò. Feci il mio ultimo anno a Piacenza, salvandoci con una giornata d’anticipo. Il miracolo era compiuto”.

Fu il momento dei saluti: Cagni a Verona, il Piacenza ancora in A. Mutti, Guerini, Materazzi, Simoni e Novellino a tenere vivo quel sogno. Autarchici fino al 2001, con l’arrivo di Matuzalem e Amauri, retrocessi senza ritorno nel 2003. Fine di un’epoca, anche perché lungo il cammino, Piacenza aveva perso il suo protagonista principale. La morte improvvisa dell’ingegner Leonardo Garilli nel dicembre del ’96 aveva lasciato un vuoto incolmabile. Gli venne dedicato lo stadio Galleana, i figli presero il timone, ma quella magia iniziò a sparire con lui. Anni bui, fino al fallimento del 2012.

Oggi la città ha due squadre: Piacenza 1919 e Pro Piacenza. Nel derby di stasera si giocano molto della loro stagione. La prima insegue i playoff, la seconda scappa dai playout. E per farlo ha appena ingaggiato una coppia d’allenatori: Maccoppi e Lucci. Stefano e Settimio, baluardi difensivi del gruppo che scaldò gli anni ’90. Coriandoli di memoria.

Se chiudi gli occhi, senti il rumore dello starTac. Una squadra speciale, il tamagotchi di tutti quelli che credevano nelle favole. Provinciali, vestite anni ’90 e celebrate per sempre.

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