Infortunio vuol dire sfortuna, basta vederlo sull'enciclopedia

Infortunio vuol dire sfortuna. Basta vederlo sull’enciclopedia: evento avverso, disgrazia. La parola tiene un’accezione che suggerisce qualcosa di molto legato al casuale. Qualcosa che capita per sfortuna, appunto. Per noi atleti, a volte basta un movimento sbagliato, uno scatto troppo intenso, un muscolo che non risponde, o un avversario che prende male i tempi e ti impatta. Tutti sappiamo che questi incidenti capitano, ed è una cosa da mettere in preventivo. Va accettato.

 

 

Eppure ogni volta che capitano ne cerchiamo la spiegazione. O la colpa: “Se quel giorno non avessi fatto così.. forse non sarebbe successo”. 
Quando ho rotto il crociato ad esempio, stavo giocando un’amichevole. Lo ricordo come se fosse ieri. Ero molto seccata perché diverse mie compagne avevano deciso di fermarsi e chiedere il cambio per problemi vari: era agosto ed eravamo in fase di preparazione. Questi acciacchi sono una cosa piuttosto comune. Eppure io fino ad allora avevo avuto la fortuna di non farmi mai male. E tra primo e secondo tempo avevo anche detto alle mie compagne che erano “Delle pappemolli”. Pappemolli, sì. 

 

Prima ero convinta di essere invincibile poi...

Poco dopo, in un cambio di direzione, il ginocchio mi ha ceduto. E ho rotto il crociato anteriore del ginocchio sinistro. Molte volte ho pensato che c’era qualcosa di troppo ironicamente collegato alla mia brutta frase pronunciata. Come se il karma non fosse qualcosa di così illusorio. Da allora, da quel giorno, tutta la mia mentalità è cambiata. Prima ero convinta di essere invincibile, che quelle cose non potessero capitare a me. Invece eccomi lì, con un’operazione e una lunga riabilitazione da affrontare. Sono una per cui fare sport è una necessità e stare ferma quasi un anno è stata una cosa non da poco. Ma non essendo una professionista sicuramente ho avuto meno ripercussioni. 

 

 

Non posso dire che quell’infortunio successo a 27 anni mi abbia in qualche modo rovinato il futuro calcistico. Per quelli che dello sport ne fanno un lavoro, farsi male comporta un grosso danno alla carriera. Ma ho imparato una cosa: la bravura sta proprio nel sapersi fermare, capire fino a dove può spingersi il nostro corpo. 

 

 

Non è per nulla semplice. Vi faccio un esempio. Qualche domenica fa, mi sono svegliata con il ginocchio che mi dava fastidio, durante il riscaldamento prima della partita non riuscivo a pensare ad altro che a quello, a quel dolore quando il ginocchio andava in estensione. Ho deciso di smettere di scaldarmi e ho aspettato l’inizio della partita in spogliatoio. Poi ho giocato comunque, e per fortuna non ho sentito nulla. Tutto svanito. Ma la paura di farsi di nuovo male diventa una compagna perenne con cui fare i conti. Giocare con dei fastidi e gestirli diventa una grande abilità. Cambiamo pure il modo di giocare per governare i nostri infortuni, che diventano il nostro tallone di Achille. Tra compagne, poi, conosciamo quello di ognuna. 

 

Quando torni a fare quello che ami, è più bello di prima 

I nostri dolori, le nostre paure, il modo in cui li affrontiamo, come li ascoltiamo, come li coccoliamo, come facciamo di una crisi la possibilità di reinventarci, questo è per me un infortunio. 
E ho imparato che non ha senso soffrire per ciò che si rompe se lo puoi aggiustare: dopo, quando torni a fare quello che ami, è più bello di prima.

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