Bologna, Donadoni: "Rivera era grande perché era semplice: così si diventa idoli"

Dribbling ubriacanti e corsa incessante sulla fascia. Roberto Donadoni in campo era una furia, forse uno degli ultimi interpreti veri del ruolo di "tornante". Da allenatore una carriera di tutto rispetto, forse un po' sfortunata. Ma fuori dal campo l'ex ct azzurro che persona è? Donadoni si è raccontato a 360 gradi nel corso di un'intervista concessa a La Gazzetta dello sport: "Da calciatore sei sempre paragonato a qualcuno e non mi piaceva. Non perché pensassi di essere migliore o peggiore degli altri, ma non ho mai cercato un modello: il modello giusto è quello che riesci a creare di te stesso, ognuno ha una sua specificità e sceglie di essere quello che vuole. Ma non da un momento all’altro: è quanto fai ogni giorno che ti fa essere quello che sei. Detto questo, al di là del mio tifo per il Milan, non mi era difficile specchiarmi in Rivera: quasi ogni sua giocata ti lasciava a bocca aperta. L’eleganza che compensava la poca forza fisica, le finte di corpo che disorientavano, il piacere di far segnare gli altri: la mia idea di calcio, forse anche perché non sono mai stato un gran realizzatore. Rivera era grande perché era semplice: è così che si diventa speciali, si diventa idoli".   Gli anni passano anche per i "super eroi" del calcio: "I capelli bianchi mi sono venuti tutti insieme: giocavo nel Milan e all’inizio provai anche a mimetizzare con quei pettini che li scuriscono, però Tassotti mi sgamò subito e iniziò a urlare: 'A Morettoooo'. Mi sono accettato così come sono e continuo a farlo, anche se sento che il mio fisico dà risposte diverse e quello è il momento in cui mi dico che non si dà abbastanza peso al tempo che scorre: magari dici che non sai come ammazzare il tempo ed è il tempo che sta ammazzando te. Invece il tempo ti può aiutare, a cambiare: domani spero di essere diverso da oggi, se rimanessi sempre lo stesso mi sentirei più povero. Ecco perché la vecchiaia non mi spaventa, se non per due cose: spero di non diventare un rompiballe e di poter essere utile a qualcuno, sarebbe una grande sconfitta dovermi accorgere del contrario".   Adolescenza vissuta tra pallone, scuola e cantiere: "Molto calcio, strada, aria aperta, divertimento e poco tempo a casa: tanto non si andava granché lontano, per me Brivio, tre chilometri scarsi da Cisano Bergamasco, era già estero. In certi periodi pochino anche lo studio: due volte sono stato rimandato e mio padre per punizione mi mandò a lavorare in cantiere, ho fatto il muratore e pure il gruista, troppo bello manovrare quella macchina. Quando arrivava l’estate, scattavano le nostre Olimpiadi: gara di corsa e di biciclette, lancio del peso con una boccia e del giavellotto con un manico di scopa appuntito, salto in alto con un vecchio materasso inutilizzato e le medaglie le facevamo con il compensato.  In principio non era solo calcio, ho alternato con sport di pura tigna. A pallavolo giocavo alle medie e dovevo ancora passare - fra i 14 e i 17 anni - da 1.45 a 1.75 di altezza: il fisico non mi aiutava, ma con gli oggetti sferici ci ho sempre saputo fare ed ero schiavo del mio desiderio di primeggiare a tutti i costi. Fu vedendomi giocare a calcio-tennis che Ottavio Bianchi mi chiamò ragnetto - recuperavo palla ovunque - mentre sci, tennis e golf sono arrivati dopo. Sono stato un autodidatta e si vede: grande fisicità, stile così così".   Momenti brutti di una carriera di successo:  "Credo di aver dimenticato gli errori miei e dei compagni molto prima di tanta gente che magari, tipo nel ’90, ho fatto soffrire più di quanto abbia sofferto io: ma è bello anche che le cose non vadano come vogliamo, altrimenti che vita sarebbe? Molto meno bello fu quando, fregarono un sacco di soldi a me, Tassotti e Giovanni Galli con una di quelle finanziarie farlocche, ma lì fu più che altro delusione: il padre di tutta la truffa aveva un figlio down e aveva fatto leva proprio su questo per tranquillizzarci sul suo senso di responsabilità. Che bassezza. Altro momento brutto nel 1988. Se quel giorno a Belgrado il dottor Monti, per rovesciarmi la lingua, non mi avesse quasi fratturato la mandibola, e poi non mi avesse intubato subito, non sarei qui a raccontare le ore dopo quello scontro con Vasilievic della Stella Rossa. Dopo, rivedere tutto in tv, le facce di Van Basten, Gullit e Maldini con le mani nei capelli, per me è stato toccante quasi quanto quello che mi è successo per tre giorni in ospedale. La prima immagine nitida che ho è il risveglio in stanza, con me c’erano due signori: uno era un malato terminale, aveva un tumore gravissimo e continuava a chiedere a me come stavo; l’altro era caduto dal terzo piano, non aveva un osso a posto, ma mi sbucciava i mandarini e mi schiacciava il succo sulle labbra, perché non riuscivo ad aprire la bocca e non potevo mangiare nulla. Stavano molto peggio di me e si preoccupavano come se quello più grave fossi io: che modo meraviglioso di spiegarmi quanto ero stato fortunato".

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