Atalanta, c'è anche chi non ce l'ha fatta: la storia di Elia

La giornata di Elia, solitamente, inizia abbastanza tardi, perché dormire in fin dei conti non gli dispiace. Si ricorda di quando lo buttavano giù dal letto, di peso: “Devi andare a scuola!”, gli gridavano. A Bergamo suonava la sveglia ed era sempre la stessa storia. Luca, Filippo e Andrea, tutor che provavano a fare i genitori, entravano nella quadrupla e iniziavano la battaglia: “Ma ho visto gente continuare a dormire anche per terra, senza materasso”.

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Elia sorride nel pensare alle urla che movimentavano le mattinate della Casa del Giovane, convitto che di talenti ne ha visti eccome. Zaza, Bonaventura, Padoin e non solo: “Un giorno giochiamo un’amichevole con la prima squadra. Perdiamo 21 a 0. Con me, a destra, giocava Conti. Marcavo Denis. Io 65 chili, lui 80 di soli muscoli”. L’Atalanta sullo sfondo, in primo piano un ragazzino di 14 anni che sogna di diventare calciatore.

“Mio babbo fa l’imbianchino, lo avrei sistemato con mia mamma in una casina con l’orto. Poi avrei investito in un ristorante”. A Elia piace cucinare. Lo sanno bene gli amici, innamorati delle sue tagliatelle con la ‘nduja: “Alle ragazze invece cucino la tartare. Le tratto bene”, scherza. Adesso studia farmacia a Firenze e ha detto “no” non ad un top club europeo ma a Medicina: “Ero entrato, ma volevo altro”. 

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A calcio ci gioca ancora. Non in Serie A, ma in terza categoria: “La squadra si chiama Pian Di San Bartolo. Siamo secondi in classifica e gioco con gli amici di sempre. Ruolo? Ho 23 anni e ancora non l’ho capito. Sono un esterno alto mancino, ma ho giocato anche terzino”. Ogni tanto negli spogliatoi suona la chitarra: “Ho pure un gruppo. Proviamo a suonare i Linkin Park o Otherside dei Red Hot Chili Peppers”. Il campo è a due passi dal Franchi: “La prima partita che vidi fu un Fiorentina-Livorno 1-1. Segna Protti, pareggia Riganò”. La sua fede, però, è tutta milanista: “In camera attaccavo le figurine di Kakà, Sheva e Seedorf”. 

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Margine Coperta e poi Bergamo

Fiesole, Laurenziana e poi Margine Coperta, laddove sono passati Guarente, Pazzini e non solo: “Vincevamo sempre 12 o 13 a 0, segnai quasi 70 gol in un anno. Dopo feci un provino con la Juventus. Mi volevano anche Genoa, Udinese e  Lazio. La società però era affiliata con l’Atalanta e quindi mi mandarono lì. Dicono che non sia arrivato perché non avevo la testa. Sinceramente non ho ancora capito cosa volesse dire”.

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In campo mister Polistina lo fa palleggiare per ore con la pallina da tennis, insegnandogli ad usare anche il destro. Fra i campi di Zingonia Elia incrocia Caldara e Baselli. Si allena vicino alla prima squadra, sente le imprecazioni di Colantuono e Tiribocchi. Fuori, però, è un problema: “Il primo giorno lo ricordo bene. Ci hanno fatto parlare con una psicologa. Ci disse che l’Atalanta era un’azienda e che noi eravamo un patrimonio. Se avessimo fruttato, bene. Altrimenti ci avrebbero mandato via”.

Arriva  perfino il primo contratto con la Puma: “Duemila euro l’anno. Svaligiavo i negozi, ho rifatto il guardaroba ai miei amici”. Arriva, anche, il procuratore: “Promettono tante cose. Ti portano a cena nei ristoranti stellati di Milano, ti fanno arrivare l’ultimo modello delle Nike, ti parlano del contratto. Quando sono andato via, non mi ha nemmeno scritto. Si vede che aveva già cancellato il mio numero”. 

E poi c’è la mancanza di casa con cui fare i conti, con i genitori rimasti a Firenze: “Dopo tre settimane era insostenibile. Segnavo sul calendario i giorni che mancavano. E’ stato un trauma, a 16 anni chiesi alla mamma di poter dormire con lei. Ti credono una quercia secolare già piantata e invece sei solo un ramoscello che deve ancora crescere. Giocavo una partita bene e dieci male. Non perché non avessi la testa, ma perché sentivo la pressione. Le partite le giocavo prima. Quando entravo in campo mi sentivo vuoto, morto”.

Certo, le pazzie non sono mancate: “Una volta mi calai dalla finestra del secondo piano con una fune per andare a ballare. Tornammo tutti alticci e ci beccarono subito. Un giorno saltammo scuola e il tutor se ne accorse. Eravamo dentro l’Abercrombie a Milano quando ci chiamarono. Ci sequestrarono play e cellulari”. 

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La fine di un sogno

“Dominici!”. Siamo alla fine della stagione, è tempo dei bilanci. Elia si sta cambiando dopo l’allenamento e si sente chiamare. Deve andare a parlare con la società e ha sensazioni negative: “Quando ti vogliono mandare via, tu sei l’ultimo al quale lo dicono. Chi ti sta intorno già lo sa, per quello me lo aspettavo”. Entra nell’ufficio, ci sono la psicologa del primo giorno e Mino Favini, suo punto di riferimento: “Un maestro, un mito. Ero insieme ad un altro ragazzo, con cui furono molto schietti. ‘Non hai le qualità per restare qui’, gli dissero. Tocca a me. Mino mi guarda e poi parla: ‘Per te il discorso è diverso – mi fa – se nella testa avessi le stesse qualità che hai nei piedi, potresti giocare ovunque. Ma ora non sei pronto, ti troviamo un’altra squadra vicino casa”. Fine dei giochi. 

Nessuna lacrima. Elia è sollevato, quasi contento: “Chiamai mio babbo: ‘Che problema c’è? Torni a casa e ti fai le tue vacanze’ mi risponde. Baratti, Piombino, l’Elba. Conobbi anche una pallavolista. E’ stata una delle estati più belle della mia vita”. Dopo l’Atalanta si fanno vive Empoli e Genoa, ma non se ne fa nulla. Arriva però l’esordio in D, a 17 anni: “Poi una volta tornai nello spogliatoio e trovai appese in alto le mie scarpe tagliate: ‘Odio il calcio’, penso. Da lì dico basta”. Di Bergamo gli sono rimasti foto, ricordi e vestiti della Puma. Anche un destro, che ha imparato ad usare e che utilizza in Terza categoria. Con il sorriso e gli amici di sempre. 

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