Abascal, dalla Masia alla Svizzera: giovane fuoriclasse della panchina

strong>Sentirti grande anche quando sei piccolo. Fortuna non comune a tutti: soprattutto a chi, almeno per qualche mese nella propria vita, ha vissuto il privilegio di far parte di uno dei più importanti centri sportivi a livello giovanile in Europa. La storia di Guillermo Abascal Pérez parte dalla sua Siviglia, città in cui l’allenatore del Lugano ha presto scoperto l’amore per il pallone: il pensiero calcistico, pur in giovanissima età, è invece ormai consenziente preda di quel mondo Barcelonista di cui ha fatto parte per due anni e mezzo, scoprendo un mondo unico al fianco di chi in futuro si sarebbe espresso ad alti livelli.

La Masia come svolta nella vita professionale: Barcellona e il Barcellona capaci di cambiare obiettivi, mentalità, futuro. Perchè… ”Vedere più da vicino, quando giocavo con Iago Falque, Jordi Alba, Giovani Dos Santos e stavo a due passi da Messi e Fabregas, ha reso tutto diverso”. Frase ovvia per molti: non però per chi, attualmente, risulta il secondo allenatore più giovane nel primo campionato di ogni paese europeo, dopo aver lasciato il calcio a 19 anni. 13 aprile 1989 sulla carta d’identità e voglia di imparare e vedere il pallone rotolare…da bordo campo, basandosi tanto sull’empatia: elementi che ci hanno portato a conoscerne la storia più a fondo e più da vicino. Scoprendo perchè, 15 anni dopo quell’esperienza determinante, Abascal figura come uno degli allenatori più promettenti nel panorama mondiale.

Més que…una experiencia


"Giocavo in attacco, ma ero il meno bravo tra loro (ride ndr). Ma avendo dietro Giovani Dos Santos, Iago Falque (con cui sono rimasto amico) e Jordi Alba era facile giocare. Facevo la sponda per loro…”. Eppure Barcellona ha rappresentato l’inizio di una nuova vita, partita pochi anni prima: “Ho iniziato a giocare a calcio a 6 anni e a 12 anni mi è arrivata la proposta per giocare alla Masia: ovviamente un sogno, ho accettato subito - racconta Abascal ai microfoni di Gianlucadimarzio.com - e ho speso là due anni e mezzo, per me il periodo più importante nella mia vita, utile ad avermi fatto imparare e vedere il calcio in un modo diverso. E’ stata un’esperienza pazzesca, quando dicono che sono més que un club è davvero così: hanno una metodologia ed un’ideologia dalla quale o sei dentro o sei fuori, e se sei fuori sei lontanissimo da loro. Là ci ho messo tanto, ho fatto una fatica enorme: nel gruppo dei nuovi arrivati allora eravamo 5 calciatori andalusi più Giovani Dos Santos, e abbiamo fatto una fatica incredibile a capire l’1-2 e la creazione e l’occupazione dello spazio. Cose che per certi ragazzi a 13 anni erano naturali, per noi erano le cose più complesse del mondo”.

Fatica che fai anche a realizzare che, in più di un’occasione, chi compare a pochi passi da te è uno dei tanti (ma non troppi) esempi di campione: “Ciò che mi ha colpito di quel periodo era quanto vicini fossimo alla prima squadra, come società: mi svegliavo al mattino, aprivo la finestra e sotto passavano Ronaldinho, Eto’o, tutti i giocatori del Barça…eravamo sempre vicino a tutto. Puyol, Xavi e Iniesta una volta alla settimana andavano alla Masia, pranzavano con noi”.

E il futuro occhio da allenatore di Abascal non ha tradito soprattutto in un caso: “Si vedeva che Jordi Alba sarebbe diventato forte. C’è una storia che conosce chi ha solo giocato con lui: era tra i più intelligenti nella Masia a livello calcistico, e giocava come “10”, una mezzapunta alle mie spalle. Non aveva mai giocato in altri ruoli, e mai mi sarei aspettato potesse diventare un terzino del genere come lo è stato al Valencia, al Barcellona e in Nazionale: sono stato colpito fortemente da questa cosa. Quando giocava con me era alto 1,50m e aveva poco fisico, ma aveva una comprensione del gioco altissima per l’età che aveva: e i giocatori che hanno tantissima qualità possono giocare in qualsiasi squadra. In più ho visto “crescere” Messi: lui, al contrario di gente come Piqué e Fabregas andata a giocare in Premier, è rimasto per migliorare sempre più e arrivare in prima squadra subito. Lo vedevamo a scuola con noi: per studiare studiava poco (ride), ma a livello calcistico era già un dio…”.





La svolta: Uni…ed Emery





"Prima di andare al Barcellona, mi avevano bocciato al provino, e successivamente sono finito a giocare lì. Ma non ho più trovato la motivazione giusta, perchè quando si parla di Barcellona parli di una scuola di calcio diversa, di giocatori intelligenti, con comprensione alta del gioco: mi sono ritrovato ad aver a che fare con questo. A Siviglia invece ho trovato un calcio di grinta, di lanci lunghi, di seconde palle, vedere il calcio in altro modo: prospettive differenti sulle quali rifletti a livello di ciò che ti possa piacere di più o meno, che mi hanno fatto capire un po’ tutti i modi di lavorare”.

Da lì, la definitiva decisione e svolta: “Smisi di giocare perchè non trovavo la motivazione: il Siviglia sarebbe poi cresciuto tanto dal 2008 in avanti a livello di gioco, società e cantera…ma a 19 anni ho deciso di optare per l’università e per Scienze Motorie: successivamente ho fatto i corsi di allenatore. Ero un po’ in debito con la mia famiglia perchè mio padre mi ha seguito sempre, e mi sono messo in discussione: alla fine il Siviglia mi ha dato l’opportunità di entrare a lavorare alla cantera, e sono stato là per 5 anni, facendo di tutto. Preparatore atletico prima, allenatore in seconda poi, lavorando anche nel dipartimento di analisi tattica come analista e per due anni nello staff di match analysis di Unai Emery. Tutto sommato mi hanno regalato una bella esperienza, imparando tante cose anche fuori dal campo e portandomi ad essere ciò che sono ora”. Con la Svizzera nel destino…





Giovane, fuoriclasse, svizzero





"Successivamente è arrivata la proposta del Chiasso. Ci ho pensato 2/3 giorni e ho accettato: mi sono trovato benissimo subito, le cose sono andate bene e ho imparato velocemente la lingua, perchè credo che nel calcio di oggi si debba comprendere sempre tutto al meglio e, se non ti puoi spiegare bene, non puoi “arrivare” al giocatore. Vale soprattutto per un allenatore come me, giovane, che non può essere rispettato per la sua carriera o la sua esperienza ma che deve ispirare fiducia per come lavora e per le idee che ha”.

E sul discorso età, dai paragoni con Nagelsmann ad un primato di allenatore più giovane attualmente in attività quasi sfiorato, Abascal preferisce non rifletterci troppo: “Non ci penso. Dovessi rendermi conto di ciò che sto facendo, e a quale età, magari potrei anche spaventarmi un po’ (ride)… Credo che l’età non significhi esperienza: puoi avere 50 anni, lavorare da 20 ma lavorare anche male, per esempio. La cosa più importante è essere all’altezza dei giocatori, farti vedere come una persona che può aiutare il singolo e la squadra a migliorare. Ho avuto allenatori giovani e non giovani, l’età a volte fa sopravvalutare e sottovalutare le persone con cui lavorare: noi allenatori dobbiamo rubare il talento del giocatore, con le nostre capacità di analisi, per metterlo a posto in una squadra e farlo giocare bene. Bisogna avere ambizione e voglia di migliorare: una persona che già pensa di sapere tutto non potrà mai godersi davvero una vittoria o un bel momento. La mia esperienza da calciatore, non riuscita nonostante sia stato in due settori giovanili importanti, può far capire anche qualcosa a molti giocatori: se però sei pronto, preparato, hai empatia con la squadra, il resto viene da solo. L’importante è avere sempre risposte a delle domande”.

Ciò che ad Abascal non manca mai, anche quando si tratta di analizzare la situazione del suo Lugano, interessanti giovani compresi: “Abbiamo meno budget rispetto alle grandi, ma meno soldi hai e più devi lavorare: la differenza non possiamo farla sicuramente sul fisico e sull’economico, ma dobbiamo farla sulla tattica. Dobbiamo migliorare ed essere superiori all’avversario, vincere le partite e arrivare più volte vicini a far gol rispetto all’avversario: il nostro obiettivo è questo, poi al momento per noi il risultato è secondario. Al momento non siamo mai stati inferiori all’avversario, neppure nei dati: questa dev’essere la nostra forza. Il campionato svizzero cambia in poco, passi dalla zona retrocessione a quella Europa League in un attimo: il nostro obiettivo è raggiungere la salvezza, poi vediamo. Abbiamo un giocatore come Abedini, ex Chiasso, che funge da play davanti alla difesa: classe ’98, è un giocatore che se formato bene ha buona struttura e se fa bene può arrivare in campionati importanti in 2-3 anni. Abbiamo tanti Under20, ma anche Junior, un classe ’94 che ha doti fisiche-tecniche importanti: ci stiamo lavorando su bene, così come su Macek, arrivato ora in prestito dalla Juventus. Il prestito qui gli farà bene. Anche Yao secondo me riuscirà a migliorare”.



L'Italia, tra modelli e sogno nel cassetto





"Avevo già parlato con la Juventus, della chance di allenare la Primavera o la Seconda Squadra in caso decidessero di farla, poi però è arrivato il presidente del Lugano Renzetti che devo ringraziare tanto: andare lì in quel momento non sarebbe stata la situazione più bella possibile, mancavano 8 partite ed erano a +1 sull’ultima classificata, in grossa difficoltà. Magari si poteva pensare fossi solo un traghettatore, invece il finale di stagione è andato bene, ci siamo salvati dopo 4 partite: il Presidente ha avuto da subito fiducia in me".

Rifarsi a Guardiola ("E' un vincente e ha vinto tutto, ma con il suo modo di vedere il calcio, vincendo anche altrove rispetto a Barcellona") apprezzando anche una qualità in particolare di Spalletti, incontrato giovedì ad Appiano per assistere ad un allenamento ("Ciò che mi ha colpito è soprattutto come sta in campo, la sua tranquillità, il modo in cui parla ai suoi calciatori"), passando poi per il suo modo di fare calcio, contrapposto alla propria indole originaria: "Il Barça mi ha colpito, e io sono spagnolo di Siviglia, sanguigno, ho intensità. Ma mi considero un allenatore cui piace giocare a calcio con il pallone, si attacca e si difende con la palla per me, ovviamente avendo i calciatori con le caratteristiche adatte a questo. Se hai il possesso e puoi aggredire l’avversario va bene, ma avercelo tanto per averlo non serve a nulla: non farò mai un allenamento in cui un calciatore non abbia l’obiettivo di attaccare lo spazio, di difendere alto. Difendere per difendere, chiudere le linee tanto per chiuderle non ha senso: mi piace chi si prende la responsabilità, che accettano il duello, chi vuole intensità e il ritmo alto".

La sua Siviglia è oggetto di un paio di incroci in chiave Milan in questa stagione, tra André Silva e la nuova avventura e l'ostacolo Betis di Quique Setién: "André Silva? Sicuramente qui ha fatto fatica, ma in Spagna il calcio è diverso: quando ti vien dato il pallone devi farlo tornare nel miglior modo possibile, e lui ha qualità e visione di gioco importante. Negli ultimi metri può anche trovare passaggi intelligenti per smarcare i compagni, è il tipo di attaccante a fare la differenza in quel tipo di calcio: e in una squadra come il Siviglia, con Vazquez, Banega e Sarabia dietro, può far bene. Il Betis, invece, è cresciuto tanto: vogliono avere sempre il pallone, superare gli avversari linea per linea. Hanno iniziato l’anno scorso con tantissimi dubbi, ma sono cresciuti: se il Milan non difende bene e si fa superare dal Betis con il possesso, può soffrire tanto. Se il Milan invece si difende bene e lascia far girare palla al Betis, chiudendo le prime linee di passaggio, sicuramente poi in ripartenza può fare bene: quando si scoprono, fanno fatica a difendersi".

Giovane, spagnolo…un po’ come Velazquez, a sorpresa (anche per Abascal) nuovo allenatore dell'Udinese. "Lo conosco perchè ha allenato il Betis ed è della scuola Villarreal, molto caratteristica per quanto hanno fatto con Marcelino ed altri allenatori da quando c’era Pellegrini prima: fanno un gioco di tante combinazioni e lavorano parecchio sul “rondo” (il torello), crescendo con questo. Di solito hanno fatto sempre 4-4-2 senza inventarsi niente e con qualche tipo di centrocampista diverso, dando tanta intensità, passo e tecnica. Non me lo aspettavo qui in Italia: ho lavorato con persone che erano al Granada, quando era ancora legato all’Udinese, e mi ha sorpreso: devo osservarlo bene qui per vedere come andrà. Se ti sai adattare alla realtà dove vai, con intelligenza, portando anche il tuo lavoro e facendo un buon mix, così puoi uscire vincente: per noi allenatori spagnoli non è semplice comunque adattarsi al calcio italiano, e potrebbe essere normale fare fatica. E’ un allenatore giovane e intelligente, spero che possa far bene".

Partita con un sogno, conclusa con un sogno. Alla fine della nostra chiacchierata, cosa frulla nella mente di Guillermo Abascal Pérez per il proprio futuro? "Non sogno uno di quelli che vorrebbe il Barça, il Real, la Juventus…ma sogno di arrivare dove il calcio mi permetta di lavorare, che necessita tanto di un ambiente positivo e con un tifo caldo. Il sogno sarebbe fare il salto in Italia, non vorrei tornare in Spagna: per me potrebbe darmi tanto e potrei crescere tanto. Ho vissuto nuove esperienze e nuovi concetti, nuovi principi e nuovi modi di lavorare: un allenatore non può dire di aver fatto calcio senza aver allenato almeno una volta in Italia, soprattutto per una persona innamorata della tattica come me. Vorrei imparare ancora e crescere con le vostre idee". AMAscal, stavolta. Come quel bambino capace 15 anni fa, in quell'universo blaugrana che gli ha cambiato la vita, di sentirsi grande anche quando era piccolo. Google Privacy