A tutto Conte: “Alla Juve un’alchimia che superava ogni ostacolo. Senza la firma con il Chelsea non avrei abbandonato la Nazionale”

Dalla Juventina Lecce alla Juventus. Poi la Nazionale e ora il Chelsea. Antonio Conte si racconta, a 360°. Soddisfazioni e delusioni, speranze e paure confessate a Paolo Condò, nella prima puntata della stagione di “Mister Condò” su Sky Sport. L’allenatore dei Blues ripercorre la sua carriera, a partire dall’infanzia in strada: “Un periodo bello in cui ho imparato tanto - racconta Conte - il campo di Sant’Antonio a Fulgenzio era rovinato ma noi avevamo tanta voglia di giocare. Quindi il prete ci faceva giocare in cambio della nostra presenza in chiesa durante la messa. Oggi le possibilità sono diverse, c’è meno voglia di soffrire e di lottare per ottenere qualcosa. Manca il talento “da strada”, dove una volta si sviluppavano le abilità”.

“Giocavo nella squadra di mio padre e quando voleva dare una lezione ai tutti interveniva su di me. Ero un ragazzo semplice e sono sempre rimasto così. Fascetti mi ha dato fiducia quando mi ha fatto esordire a 16 anni. Lui ha sempre avuto occhio per i giocatori giovani, così è stato anche con Cassano. Non mi paragono a lui che ha molto più talento rispetto a me, ma entrambi siamo cresciuti in mezzo alla strada. Mazzone, poi, mi ha fatto crescere anche da un punto di vista di sofferenza. Mi ha insegnato tanto”. Poi è arrivata la Juventus: “Sapevo che c’erano degli osservatori che mi seguivano negli allenamenti e nelle partite. Fu un cambiamento molto importante. Se qualcuno mi avesse detto che arrivato a Torino sarei rimasto 13 anni, vincendo tutto e che sarei diventato capitano gli avrei risposto di farsi a curare… Avrei firmato per un terzo o per un quarto di quello che ho avuto dalla Juventus. Anche se tante volte ho pensato: ‘Ma chi me l’ha fatto fare di lasciare casa mia per essere meno felice?’. Il punto è che non volevo tornare a Lecce da sconfitto”.

“CHE FATICA L’INIZIO A TORINO. NEL 2011 I GIOCATORI AVREBBERO FATTO DI TUTTO PER ME”

Da capitano ad allenatore, una carriera vincente a tinte bianconere. Dal 1991 al 2004 e dal 2011 al 2014 , prima in campo poi in panchina. La carriera di Antonio Conte è strettamente legata alla Juventus. Un periodo lungo in cui è cresciuto come calciatore e come uomo. “Arrivare a Torino è stata durissima sotto tutti i punti di vista – racconta ancora l’allenatore – pochi giorni prima ero in spiaggia a Lecce, lì ero solo in mezzo alla nebbia. Non riuscivo a dare del tu ai miei compagni, da Baggio a Schillaci. Che fatica! Dopo una prima amichevole difficile contro il Monaco, Trapattoni ha continuato a puntare su di me. Senza di lui non credo che sarei riuscito a restare così tanto alla Juventus. Poi arrivò Lippi e di lui mi porto dietro tante cose. Riusciva a motivarti ogni giorno”.

“Nel ’96 sono diventato capitano – continua Conte – da quel momento devi mettere gli interessi della squadra davanti ai tuoi. Ricordo con grande emozione il mio primo scudetto e quello del 2002 vinto a Udine. Il ricordo di Perugia invece è devastante, non ho dormito per cinque giorni. Lo scudetto del 2012, il primo in panchina, è la più grande impresa che sia stata fatta. In partenza eravamo considerati da settimo o ottavo posto. Siamo riusciti a creare qualcosa di fantastico, un’alchimia che poteva superare ogni ostacolo. Se avessi detto ai miei calciatori: ‘Andiamo sopra ad un palazzo e buttiamoci di sotto’, ci saremmo andati tutti. C’era una fede incondizionata, a ricordarlo mi viene la pelle d’oca”.

Conte è stato ad un passo dalla Juventus già nel 2009, la società però scelse poi di continuare con Ciro Ferrara. Così il ritorno a Torino slitta al 2011: “La dirigenza mi ha aiutato molto, così come Del Piero e Buffon. Con loro ho condiviso gioie e dolori da giocatore e ci fu grande disponibilità. Sono stati fondamentali, Alex rispose alla grande nel momento caldo del campionato; aveva forza, responsabilità e classe per fare la differenza. Ricordo l’ultima gara che ha giocato contro l’Atalanta, lo stadio si è fermato: si fa fatica a non emozionarsi in un momento così. Quell’anno il Milan era il grande favorito ma noi avevamo tutto in più rispetto agli altri. Poi negli anni, nonostante le vittorie, la Juventus è sempre cresciuta; continuare a costruire non è semplice”.

“DURANTE L’EUROPEO SIAMO DIVENTATI UNA FAMIGLIA, AVESSIMO VINTO CON LA GERMANIA…”

E dopo la Juventus, la Nazionale: “I miei genitori erano estasiati, così come lo ero io. Allenare l’Italia è qualcosa di incredibile e tutta la mia famiglia era favorevole a questa mia decisione, soprattutto dopo tre anni vissuti intensamente, con grande passione. Andare ad allenare la Nazionale è stata anche una forma di rispetto nei confronti della Juventus”. Due anni che a Conte hanno dato tantissimo: “Il primo anno e mezzo è stato bello - continua l’allenatore con gli occhi lucidi - ma quello che siamo riusciti a creare in quei cinquanta giorni che siamo stati insieme è qualcosa di unico e straordinario. Una famiglia. Quando abbiamo perso con la Germania tutti piangevano perché sapevano che il giorno dopo non ci saremmo più visti. È stata una gioia immensa condividere certi momenti con tutti. Fossimo passati noi ai rigori avremmo avuto grandi possibilità di vincere l’Europeo”.

“C’è stato anche un momento in cui ho rimpianto di aver già deciso di cambiare: se non avessi firmato per il Chelsea… Non avrei potuto abbandonare i ragazzi”. Tre soli giorni di vacanza, poi via con una nuova avventura a Londra. “Le energie spese in Francia sono state veramente tante. Ci siamo buttati subito in questo nuovo mondo, un’esperienza totalmente diversa. Un grande club, nuovo, con giocatori e abitudini differenti. Abramovich? È esigente ma è molto appassionato. Non subisce il calcio ma vuole sapere. È venuto tanto volte per vedere gli allenamenti e per stare con il gruppo. Vuole conoscere e questo è bellissimo. Qui la struttura è straordinaria e io lavoro di più che in Italia. Noi allenatori siamo figli dei risultati – anche se il risultato è fine a se stesso perché quello che più conta è il lavoro. La figura del manager è più totalizzante, la sfida è stimolante e sono da solo perché la mia famiglia per il momento è rimasta in Italia”.

“Ho la voglia di portare qui le mie idee e il mio metodo, anche se in Italia siamo più pronti a lavorare su tattica e su altri aspetti che qui sono secondari. Differenze con la mia prima Juve? Là conoscevo tutto, sapevo come intervenire su ogni cosa e probabilmente è stato più facile. Qui è tutto nuovo, ma a livello di calciatori ho trovato grandissimi talenti. Ma il talento va lavorato perché si possa inserire in una squadra. Si sa che non vivo bene la sconfitta, cerco di evitarla in tutti i modi. Con il lavoro, anche maniacale. Voglio che i giocatori abbiano più informazioni possibili per evitare di perdere. Se poi si perde… dovrei prenderla più serenamente, me lo dice anche la mia famiglia. Io invece non dormo, cerco di capire perché. Mi piacerebbe, a volte, essere più superficiale. Ma il giorno in cui sarò più superficiale avrò perso tutto quello che sono”.

In conclusione, un pensiero sui rapporti personali con quei calciatori che ha allenato negli ultimi anni: “Non sono sempre rose e fiori. Personalmente preferisco dire una brutta verità piuttosto che una bella bugia pur di mantenere un buon rapporto con loro. Alla fine, dopo il calcio, rimane la vita e io voglio sempre poter guardare negli occhi chi ho davanti. Do educazione e rispetto sempre, ed è quello che pretendo”. Google Privacy